6-9 agosto 1916 “Santa Gorizia” la vittoria italiana nella Grande Guerra

Il tempo dirà se quella in corso è una “guerra mondiale a pezzi”, come da due anni dice papa Francesco, oppure solo una fase dei millenari conflitti confessionali, che sono più atroci quando vengono combattuti tra eresie di una stessa religione. Nulla i nuovo sotto il sole.

In attesa di risposte sul presente e di previsioni sul futuro, occorre riflettere sul passato prossimo: la battaglia “di rottura” per Gorizia del 6-9 agosto di cent’anni orsono. In pochi giorni – narrò il Comandante Supremo Luigi Cadorna nelle Memorie (*) – il VI Corpo d’Armata, agli ordini del “cuneese” Luigi Capello (massone), sfondò il fronte austro-ungarico (comandato dal roccioso generale Boroevic) e prese di slancio Monte Calvario, Monte San Michele e il campo trincerato di Gorizia. La 12^ divisione fanteria irruppe per prima in città e ne sloggiò la 58^ divisione nemica. Ma lì si fermò, sotto il tiro degli austro-ungarici arroccati in alto e forti di due, tre munitissime linee difensive.

Fu la Sesta battaglia dell’Isonzo. Dal maggio 1915 Cadorna sferrava attacchi frontali, le costosissime “spallate”, per arrivare a Lubiana, aggirare Trieste e far insorgere le nazionalità all’interno dell’Impero asburgico. Cultore di storia, aveva fiuto politico superiore a quello del governo Salandra-Sonnino e del successivo Boselli-Sonnino. Nel maggio 1916 Vienna scatenò l’offensiva di primavera (dagli italiani denominata “spedizione punitiva”, memori del loro voltafaccia dall’alleanza con gli Imperi centrali all’Intesa). Avrebbe vinto se Cadorna non avesse catapultato verso il Trentino uomini e mezzi dal fronte orientale. Appena capito che il nemico era in ritirata, in soli otto giorni, da grande stratega, Cadorna riportò uomini e artiglierie a est, chiese alla III Armata, comandata dal duca d’ Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia, di avanzare su Monfalcone e sferrò l’attacco su Gorizia. Sapeva che sarebbe stata dura. Il 29 giugno sul San Michele il nemico aveva ucciso 3000 italiani col gas.

La fortuna aiuta gli audaci. Il 6 agosto gli uomini agli ordini di Pietro Badoglio, appena colonnello, dopo asperrima lotta in soli quaranta minuti di sforzo finale conquistarono Monte Sabotino, agognato dal 24 maggio 1915. Il successo gli meritò la promozione a generale per merito e più tardi il titolo di marchese. Nelle Memorie Cadorna elogiò il “superbo slancio delle fanterie”, comprendenti bersaglieri e tutte le specialità, mentre il Corpo degli Alpini dette magnifiche prove di valore. “Ali ai piedi”, cavalleria e ciclisti inseguirono il nemico in ritirata. La vittoria però non venne sfruttata. Lo slancio si esaurì. Occorrevano mesi per dotare l’esercito delle armi e delle munizioni da fuoco e da bocca necessarie a proseguire l’offensiva.

Dopo la conquista/liberazione di Gorizia Cadorna ordinò altre tre “spallate” sul Carso. Non ne scaturì nessun’altra vittoria ma il logoramento del nemico, perché quello era ormai lo scopo supremo: esaurire le energie materiali e morali dell’avversario e resistere. Come l’Italia seppe fare nell’ottobre-novembre 1917, quando, spezzato il fronte della II Armata (comandata da Capello), gli austro-germanici avanzarono sino al Piave (e ripresero Gorizia). La vittoria italiana di cent’anni orsono decise la Romania a scendere in guerra a fianco dell’Intesa: un errore, perché, militarmente debole, fu vinta, occupata e sfruttata dai germanici.

Solo nel 1917 l’industria bellica italiana (dall’Ansaldo di Genova alla Fiat di Torino…) raggiunse il livello produttivo necessario ad alimentare la macchina militare che mise in divisa cinque milioni e mezzo di cittadini e affrontò difficoltà enormi, come il quotidiano rifornimento d’acqua alle truppe sull’Altipiano: quasi 500.000 litri con autobotti e muli.

Necessità? Fatalità? Follia? L’importante è non giudicare con gli occhi di oggi. L’unico vero errore è dimenticare. La battaglia di Gorizia del 6-9 agosto 1916 fu tra le pagine più importanti dell’intera Grande Guerra. Gli italiani vi persero circa 52.000 uomini (1759 ufficiali), contro i 42.000 lamentati dal nemico (807 ufficiali). Lo ricordano il generale Oreste Bovio nella Storia dell’Esercito italiano e Flavio Rodegheiro in Noi che fummo giovani… e soldati (Marsilio), un bel volume candidato al Premio Acqui Storia. Vi si batterono 27 brigate, i cui nomi riecheggiano l’intera Italia, e 2 reggimenti dei Granatieri di Sardegna. Vittorio Locchi scrisse la commossa “Sagra di Santa Gorizia”. Ma dalle trincee si levò lugubre il canto “O Gorizia, tu sei maledetta…”.

Trent’anni dopo la città fu spezzata in due dal confine italo-jugoslavo, tracciato a freddo dai “vincitori”, tra i quali figurò Tito. Un reticolato lacerò corpi e animi. Ora esso è come i fili che cuciono le ferite ma rimangono dimenticati nella carne. In quest’Europa sempre più in confusione, sottopelle se ne avvertono nodi e gibbosità. Quella Grande Guerra non è acqua passata. È storia viva.

 

Di Aldo A. Mola

(*) La guerra alla fronte italiana, di imminente ristampa a cura del Centro Giolitti e dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

 

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