dal Corriere della Sera del 1 ottobre 2018

1 Ottobre 2018 – Corriere della Sera, rubrica “la nostra storia”.

di Lorenzo Terzi

La figura di Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, è stata raramente oggetto di indagine storica, soprattutto per quanto riguarda il periodo successivo alla caduta del Regno. Eppure l’esilio del figlio di Ferdinando II e della prima moglie, la “reginella santa” Maria Cristina di Savoia, durò più di un trentennio: dal 1861 al 1894, anno della sua morte, avvenuta nella piccola città termale di Arco di Trento. Si tratta, peraltro, di un’epoca cruciale per le sorti della “nuova Italia”: il neonato Regno sabaudo, immediatamente dopo le convulse vicende della sua repentina costituzione, dovette affrontare le drammatiche emergenze del brigantaggio, della terza guerra d’indipendenza e della prima emigrazione transoceanica.
Qualche accenno alle vicende biografiche di Francesco II si trova nei saggi di Benedetto Croce dedicati al romanticismo legittimista e agli “ultimi borbonici”. Un ampio resoconto del decennio successivo al crollo delle Due Sicilie è contenuto, invece, in una monografia del 1928 che raccoglie le memorie di Pietro Calà Ulloa, ultimo presidente del consiglio del sovrano spodestato: “Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870”, con introduzione e note di Gino Doria. Il curatore fa suo, nella sostanza, l’impietoso giudizio che gli italiani di parte liberale diedero del figlio di Maria Cristina: “Il mite e mistico abitatore del Quirinale prima, del palazzo Farnese poi, è un povero essere inoffensivo, che insegue vanamente il sogno della riconquista, piatendo presso i potentati d’Europa, ordinando ai suoi ministri all’estero di protestare per il riconoscimento del nuovo regno d’Italia, chiedendo ai suoi ministri di Roma la composizione di scritture e scritture politiche che difendano la causa del Borbone spodestato e offendano la amministrazione sabauda nell’ex-reame, sovvenzionando giornali clandestini: azioni risibili tutte, ché il sogno rimane sempre sogno, i piati rimangono inascoltati – persino dall’Austria, persino dal Papa – , le proteste rimangon soffocate dai continui riconoscimenti del nuovo regno – persino da parte della Russia, persino da parte della Spagna – , le scritture dei ministri rimangono intonse, i giornali invenduti. Il paese ne ride, come di una piacevole buffoneria offerta a distrarlo da più gravi pensieri, e il lasagnone, il bombino, il Cecchino fa le spese di questa farsa che si rappresenta nella capitale del mondo cattolico, con tutto il comparsume della corte pontificia e degli zuavi francesi”.
Questo ritratto derisorio e buffonesco ha accompagnato a lungo Francesco II, ed è stato corretto e, almeno parzialmente, superato grazie alla biografia di Pier Giusto Jaeger del 1982, che però è quasi interamente limitata ai pochi mesi intercorsi fra l’abbandono della capitale da parte della corte borbonica, nel settembre del 1860, e la fine dell’assedio di Gaeta.
Mancava, quindi, un serio lavoro di indagine storiografica che si occupasse del lungo esilio dell’ultimo re delle Due Sicilie, dagli anni di Roma ai decenni di “vita raminga” trascorsi da Francesco II e dalla moglie Maria Sofia di Wittelsbach in Austria, in Baviera e in Francia.

Questa lacuna può dirsi felicemente colmata grazie a un recentissimo volume di Gigi di Fiore, L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia, edito da UTET.
Di Fiore, già redattore del “Giornale” di Montanelli, è inviato del “Mattino” di Napoli. Nelle sue pubblicazioni si è occupato prevalentemente di criminalità organizzata e di Risorgimento in relazione ai problemi del Mezzogiorno. L’ultimo re di Napoli costituisce una nuova edizione completamente rivista e aggiornata, con l’aggiunta di pagine, capitoli e documenti, indice dei nomi, sitografia e appendici, di un precedente libro intitolato, appunto, L’esilio del re Borbone nell’Italia dei Savoia, pubblicato nel 2015 e uscito come inserto di “Focus Storia”.

In quest’ultima fatica il giornalista napoletano dimostra una padronanza della materia trattata così salda da permettergli di esporre i risultati di minuziose ricerche documentarie in uno stile accattivante: la sacrosanta “leggibilità” della sua prosa distingue nettamente la produzione di Di Fiore dagli eccessi opposti dello specialismo erudito e della volgarità, quasi grandguignolesca, di certa recente paraletteratura “neosudista”. Un esempio singolare di questa misurata eleganza stilistica è offerto dalle pagine nelle quali si descrivono le difficoltà della vita “intima” di Francesco II e Maria Sofia, causate dalla fimosi da cui il sovrano era affetto, complicata da blocchi emotivi. Sarebbe stato facile decidere di omettere questo scabroso retroscena o, al contrario, farne l’oggetto di morbose e, magari, piccanti speculazioni. L’autore, invece, sceglie la strada dell’autentica pietas umana e storica, rievocando la delicata vicenda con semplicità e verità. Sicché, perfino soffermandosi su un particolare tanto “privato”, Di Fiore riesce a rendere in tutte le sue sfumature la realtà psicologica, contraddittoria e complessa, dell’ultimo Borbone, che si riflesse anche nella sua attività pubblica allorché si trovò a dover affrontare spinose questioni di politica italiana e internazionale.
Peraltro la dimensione biografica, ne L’ultimo re di Napoli, non va mai a discapito della ricostruzione della “grande storia”, le cui vicissitudini, anzi, rendono più chiara e più ricca la narrazione della vita del sovrano. La dialettica fra Stato e Chiesa nel drammatico periodo dell’unificazione nazionale, la repressione del brigantaggio con l’annessa legislazione speciale, i conflitti europei – in primo luogo la guerra franco-prussiana – formano il grande sfondo dell’affresco su cui Di Fiore fa emergere potentemente la dolente, dignitosa personalità di Francesco II. Le angosce e i dispiaceri determinati dalle vicende politiche acuirono le pene che lo sfortunato re fu costretto a subire nell’esilio: la scomoda convivenza, a Roma, con una camarilla di parolai intriganti, le tristi notizie provenienti dal suo ex regno, i numerosi lutti familiari, e soprattutto la morte dell’unica figlia, la piccola Maria Cristina Pia, vissuta appena tre mesi, dal dicembre del 1869 al marzo del 1870. Ne viene fuori il ritratto di un uomo che può dirsi “distrutto ma non sconfitto”, come recita la didascalia tratta da Il vecchio e il mare di Hemingway, posta all’inizio del volume.
L’incrocio tra biografia e storia politica riaffiora nell’ampia, utilissima Cronologia inserita dal cronista del “Mattino” alla fine del libro. La precedono due appendici, per mezzo delle quali Di Fiore getta un ponte fra il passato e l’attualità, come aveva già fatto in occasione della sua monografia del 2015 sulla “Nazione Napoletana”. La prima appendice ricostruisce la linea di successione dei “duchi di Castro dopo Francesco II”; la seconda, invece, dà conto della querelle dinastica che, in nome di antiche prammatiche e consuetudini, contrappone ancora oggi il ramo “franco-napoletano” a quello “ispano-napoletano” dei Borbone – Due Sicilie.

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