E i vivi stiano in pace con le ceneri dei loro defunti!

DI ALDO A. MOLA

Dopo due guerre mondiali, le atomiche sul Giappone e dinnanzi alle atrocità quotidianamente perpetrate in tanti continenti (i “media” ne mostrano solo la parte meno cruenta), è doveroso ricordare che il 4 novembre è la Festa delle Forze Armate. Una volta era il giorno della Vittoria. Ora ricorda, più sommessamente, l’immenso tributo di vite e di risorse versato dal Paese per raggiungere l’unità nazionale tra il 1848 e il 1918 (un bene prezioso e irrinunciabile) e per durare nel tempo, malgrado sconfitte, un trattato di pace punitivo, la lunga guerra civile strisciante negli “anni di piombo” e il gusto perverso di “asfaltare”, “rottamare”, intossicare e dividere, tuttora imperversante e incarnato dalla tracotanza del presidente del Consiglio in carica e da taluni suoi segugi.

L’imminenza del 2-4 novembre induce a riflessioni miti: ricordare il lungo dramma del Paese, i tanti “Caduti senza croce”, quanti morirono inabissati nei mari, nelle sabbie dei deserti, ghiacciati in Russia, deperiti nei campi di prigionia (non solo in Germania: dimentichiamo l’URSS?) e i troppi civili vittime di bombardamenti dei “liberatori” (Montecassino non è che il più ripugnante e indimenticabile).

Che cosa rimane dei morti “per causa di guerra”, come delle migliaia di cittadini annualmente vittime di incidenti sul lavoro, di inammissibili superficialità nella gestione del traffico ferro-stradale, del ritardo civile, inclusi gli “errori giudiziari”? Spesso la memoria è appena  una fotografia ingiallita dal tempo, un lembo di bandiera d’antan (guai se ha lo scudo sabaudo: in questa repubblica  sempre gracile è reato!), un anello passato dall’una all’altra generazione, un “gioiello” (prezioso o da nulla), il pensiero lancinante per le parole non dette, per le confidenze mai fatte. Perciò spesso si sente il bisogno di afferrare la mano lontana, di sentire vicino il simulacro dei defunti, le fermarsi accanto alle urne degli antenati: lì, a un passo, non solo in un tepido grigio giorno di metà autunno ma sempre.

Ora la chiesa di Roma ammette che ci si possa far cremare, ma a condizione la scelta non sia un gesto di polemica nei suoi confronti, come avvenne nei secoli da parte di cristiani d’avanguardia, come Giuseppe Garibaldi, e della moltitudine di fautori della “pira omerica” quale protesta contro vincoli ottusi e contro i roghi un tempo ordinati dall’Inquisizione. La Chiesa aggiunge che le ceneri vanno conservate esclusivamente in luoghi consacrati. Un tempo i patrizi avevano una cappella dentro o in prossimità del proprio “castello”. E gli altri, allora e ora? Per risultare davvero osservanti i cattolici debbono dunque recare l’ urna cineraria dei propri cari in un sito spesso inaccessibile, in cimiteri sempre più in abbandono e depredati? Chi ha scritto queste disposizioni ha mai visitato un “camposanto”, ha sentore del giro d’affari che ammorba i cimiteri?  D’altronde, annualmente i preti aspergono le abitazioni, le proteggono dal demonio(non sempre da ladri e rapinatori), le “consacrano”. Le aprono allo Spirito (che “soffia dove vuole”) e quindi anche a ospitare Ceneri dei defunti, che non sono feticcio ma memoria materializzata nella forma più discreta, alternativa alla dispersione della memoria, come costata chiunque visiti cimiteri monumentali con tombe in tale decadenza da obbligare i “gestori” a precluderne la visita. A conferma bastano due passi a Staglieno o in camposanti del Vecchio Piemonte.

Gli antichi greci e romani, dai quali discende il meglio l’Occidente, avevano sacro il culto degli antenati: Lari e Penati, segnacoli a portata di uno sguardo carezzevole, della riflessione su “come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”, se non per chi ancora rispetta così tanto i “sepolcri” da volerli con sé e in sé. L’Italia ha bisogno di ricordanze per vivere meglio in pace la pace di cui ha beneficiato dal lontano 1945.

Il 2-4 novembre sono i giorni opportuni per far memoria del passato: un occhio sull’arco alpino, antemurale contro stranieri famelici, tante volte violato da invasori (mai dimenticare i saraceni di un millennio addietro, che qualche erudito vorrebbe oggi declassare a abbronzate canaglie native della Costa Azzurra); un altro al mare, che nei secoli fu teatro delle Repubbliche e dei grandi navigatori ed esploratori.

In questo spirito si può concludere che i viventi hanno diritto di vivere liberi con i loro defunti, di serbare le ceneri dei loro cari dove e come meglio credono: e come del resto è consentito dalla legge dello Stato e dai regolamenti municipali, ancora una volta molti passi più avanti rispetto a “istruzioni” superstiziose. L’importante è che il culto delle memorie sopravviva, nelle forme consentanee all’età presente e a quella futura, confidando che quest’ultima non soggiaccia alla biblica “pioggia di zolfo e di piombo”.

Festa delle Forze Armate, il 4 novembre è anche il giorno dell’Unità nazionale. Ne sintetizza bene l’essenza il generale Oreste Bovio nel succoso libro Tre secoli di storia militare: dal Piemonte all’Italia (ed. Bastogi). Ci ricorda che sacro dovere del cittadino è difendere la Patria, come recita la Costituzione: una Carta tante volte disattesa da chi oggi ne propone modifiche caotiche, da respingere senza esitazione. E’ anche il giorno più opportuno per domandarsi perché mai le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena debbano rimanere disperse, lontane dall’Italia: una in Egitto, l’altra in Francia. E’ grottesco. E’ incivile. E’ una mancanza di rispetto verso la storia e quindi alla coesione di un Paese che all’unità politica giunse tardi, malvolentieri e presto imboccò i viottoli delle regioni a statuto speciale, dei campanilismi, delle contese di cui si pascono il malaffare e il riso sarcastico degli stranieri, sempre dominatori. Il 2-4 novembre sono giorni propizi alla riflessione sull’assenza in Italia di un monumento davvero unitario e unificante.

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