Europa dei popoli, Europa delle libertà

DI ALDO A. MOLA

“Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Tutte le nazionalità divise ed oppresse, le razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa, non vorranno restare fuori di questa rigenerazione politica alla quale le chiama il genio del secolo”. Era la via per la pace universale e per “guarire la gran piaga della miseria” proposta nell’ottobre 1860 da Giuseppe Garibadi (1807-1882), ligure come Giuseppe Mazzini (1805-1871), a sua volta fautore della fratellanza tra i popoli europei. Era il secolo delle utopie. All’indomani della guerra italo-prussiana contro l’Austria-Ungheria (1866), venne indetto a Ginevra il Congresso per la pace, aperto da Garibaldi che poi propose di insediare nella sua nativa Nizza il tribunale per la soluzione obbligatoria pattizia delle contese tra gli Stati. Ma, da allora, lunga e impervia fu la via verso l’unione europea, tuttora parziale e fragilissima.

Garibaldi, Mazzini, il milanese Carlo Cattaneo, il più coerente tra i federalisti, non volevano una semplice Confederazione di Stati sovrani, accordi tra governi, patti tra poteri forti sovranazionali, bensì l’Europa dei popoli. Il loro sogno è lontanissimo dalla realtà attuale. Così come rimangono ingarbugliati due nodi cruciali. In primo luogo, quali sono i confini dell’Europa? Generazioni di ormai vecchietti crebbero con la contemplazione riduttiva della “Piccola Europa” (Benelux, Francia, Italia e mezza Germania), un residuato bellico, e vissero con l’incubo dell’URSS, che era Europa, molto oltre quella di De Gaulle: non solo dall’Atlantico agli Urali, ma sino al Pacifico.

Il Novecento, secolo delle grandi guerre, mise alle corde progetti imperiali e istituzioni autoreferenziali, come il Nuovo Ordine Europeo di Hitler e la rivoluzione marx-leninista strumentalizzata da Stalin. La chiesa di Roma si protestava depositaria dell’unica confessione cristiana verace. Quell’Europa era del curiosa delle altre “culture”: “cose” da museo o da mostre itineranti di animali esotici.  Nell’immediato dopoguerra ebbe enorme successo il saggio del tedesco Ceram (Kurt Wilhelm Marek, 1915-1972) sulle Civiltà sepolte, anche perché distraeva dai conti che quell’Europa di metà Novecento dovette regolare con gli imperi coloniali arraffati e arruffati nei decenni precedenti. In secondo luogo l’Unione europea attuale ha un’identità vera, uno scopo unitario, politica estera e militare univoca? La risposta è netta: no.

In quelle temperie anche in Italia sin dalla Grande Guerra vennero avanzati progetti di federazione europea. Lo fecero Giovanni Agnelli (industriale) e Attilio Cabiati (liberista, già massone), in un saggio famoso, e Luigi Einaudi, che la preferì all’evanescente Società delle Nazioni, prospettata da Woodrow Wilson, presidente di quegli USA che, paghi di sé, non vi entrarono mai.

Nei decenni delle dittature e dei regimi autoritari tanti altri ne scrissero, meno famosi – ma non meno lungimiranti – degli autori del “Manifesto di Ventotene” (Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni), che fa da cornice all’incontro italo-franco-germanico di domani. Tra questi va ricordato il torinese Giocondo (Dino) Giacosa (1916-1999), ideatore del Movimento Unitario di Rinnovamento Italiano (MURI, 1938) con Franco Valabrega, il genovese Luigi Passadore e Alberto Cassin (Busca, 1916-Auschwitz, 1944). Arrestato nel giugno 1940 e condannato a cinque anni di confino politico a Ventotene, graziato nel 1942, Giacosa fu accolto nello studio forense del cuneese Tancredi (Duccio) Galimberti, a sua volta autore con Antonino Rèpaci di un Progetto di costituzione confederale europea einterna (1943), più citato e ristampato che letto (negava il voto alle donne, agli analfabeti e ai disoccupati, vietava i partiti politici e conferiva alla Santa Sede una posizione privilegiata). Molto più lungimirante fu l’impegno concordato il 30-31 maggio 1944 a Saretto (Acceglio, testata della Valle Maira, nel Cuneese) tra Dante Livio Bianco per il CLN Piemontese e Max Juvenal per la Resistenza francese: piena solidarietà e fraternità franco-italiana nella lotta contro il fascismo e il nazismo e contro le forze della reazione quale “necessaria fase preliminare per l’instaurazione delle libertà democratiche in una libera comunità europea”: germoglio del federalismo maturo, come la Carta delle autonomie sottoscritta a Chivasso (ottobre 1943) da quanti ritenevano che la pace deve fondarsi sul riconoscimento della complessità della storia.

La guerra non finì affatto come i federalisti avevano sperato: l’Europa fu divisa dalla “cortina di Ferro” da Stettino a Trieste, che, malgrado l’avvento della Nato, spinse Gran Bretagna e Francia a procurarsi l’arsenale nucleare (“force de frappe”), mentre venne affossata la Comunità europea di difesa, che davvero avrebbe fatto la differenza per la storia futura.

I federalisti non mollarono. Ebbero – e hanno – pensatori e storici di vaglia (Mario Albertini, Sergio Pistone, Cesare Merlini, Alberto Cabella, Giuliano Martignetti, Lucio Levi…), progettarono persino un Partito federalista europeo (Anversa, 1963), organizzarono congressi, convegni, riviste e gemellaggi che non erano pretesto per pranzi e discorsi di occasione ma laboratorio di quegli “Stati Uniti d’Europa” vaticinati, sin dal 1902, dal sociologo russo Giacomo Novicow in La missione dell’Italia (ed. anastatica, Forni)quale unica alternativa alla nuova guerra dei trent’anni (1914-1945), ormai incombente, e alla decolonizzazione conseguente, avveratasi in forme devastanti e le cui ferite ancora sanguinano.

Da lì si deve partire: dall’idea forte della federazione dei popoli europei, liberi e consapevoli; non da accordi sullo zero virgola e sulla ripartizione delle spese per “accogliere” chissà chi, da dove e  quanti, sino a quando l’ormai manifesto fallimento del multiculturalismo proverà che l’integrazione era solo una miope illusione o una callida mistificazione. Senza evocare il différend tra Maometto e Carlo Magno, né invocare crociate, i federalisti europei autentici hanno motivo di rivendicare l’invalicabilità di una Muraglia storica, ideale, civile irrinunciabile: non blocchi di cemento né filo spinato, ma la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e tutte le successive Carte dei diritti dei cittadini europei e Convenzioni che condannano e combattono ogni violazione delle leggi vigenti e separano le innumerevoli superstizioni e i loro riti e costumi dallo Stato: una conquista, questa, che agli europei è costata secoli di lacrime e sangue e non può essere rimessa in discussione per opportunismo e per viltà. Ci perderebbero, nel tempo, gli stessi “migranti” (o profughi che dir si voglia) che oggi fuggono non già dalla dominazione europea ma proprio dalle conseguenze estreme del loro modello di vita, di una “civiltà” che sta dando i suoi frutti più tossici proprio nelle loro terre. Per stare in Europa a loro agio, essi facciano propri e vivano nella quotidianità i capisaldi di questo “Occidente” che arriva dall’Impero romano e dalle Rivoluzioni liberali del Sei-Settecento.

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