Istruzione, educazione, cittadinanza per la nuova Italia

ISTRUZIONE, EDUCAZIONE, CITTADINANZA

PER LA NUOVA ITALIA

di Aldo A. Mola

La cittadinanza non è un regalo, un’etichetta qualunque. E’ conquista quotidiana. La cittadinanza è il patto fondamentale della Comunità. Questa può essere monarchica, repubblicana, federale, ma alla base ha la cittadinanza: diritti e doveri. Alla radice questa ha secoli di crescita civile, l’impervio cammino tra aspri interrogativi: istruire? educare? conferire cittadinanza? Ma cittadini di che? Di uno Stato indipendente o di un paese che (come l’Italia) ha rinunciato a parti fondamentali della propria sovranità? Cittadini del mondo?

Certo tutti siamo fratelli sotto il cielo stellato. Però abitiamo il pianeta. In modi diversi. Parecchi sono costosi. Frutto di fatiche secolari. Se vogliamo, anche di sfruttamento di risorse altrui. Ma con ingegno che altri popoli non seppero sviluppare. La ruota è davvero geniale? Sì. Tutti ci potevano arrivare. Alcune civiltà, però, la intuirono e la rifiutarono. La cittadinanza è il punto di arrivo di un percorso in salita. Certo il pianeta è stato devastato da un “Occidente” predatore, ingordo e miope. Questo stesso “Occidente”, tuttavia, nel tempo è divenuto un insieme di regole costruite a prezzo di  fratricidi, guerre di religione, stermini infine approdati all’attuale Europa degli Stati: nulla a che vedere con l’Europa dei popoli e con gli Stati Uniti d’Europa. Questa flebile Unione Europea è un consorzio d’affari, un groviglio di contratti e di gesti cifrati come nei mercati d’antan, ove ci si intendeva facendo l’occhiolino o parando la bocca mentre si confidava il prezzo o si dicevano cose sconce. Proprio come in Parlamento.

Un Paese vero si fonda sulla cittadinanza. Ma questa non è solo iscrizione all’anagrafe. E’ appartenenza allo Stato, entità apparentemente astratta e lontana dalla quotidianità, eppure concreta e vitale. L’amministrazione, quella puntuale ed efficiente, è certo un collante utile tra i cittadini e le istituzioni. Però non esaurisce la civitas. Al di sopra vi è l’“idea” accomunante. Nell’Ottocento questa ebbe varie denominazioni. Su tutte prevalsero Nazione e Patria, che riecheggiavano un rapporto forte tra il cittadino e lo Stato, basato sulla “consanguineità”, non biologica ma ideale: un “patto” tra i “nativi”, come quello del coro del Nabucco di Verdi: il miglior inno nazionale per una terra (qual è l’Italia) che subì secoli di dominazioni straniere, conquistò indipendenza, unità e libertà, ma poi tornò sotto dominazione e ancora non se n’è liberata. Il termine più accomunante e onnivalente fu Madrepatria, che stette agli italiani come la Lupa capitolina ai Gemelli dell’antica Roma, in un rapporto possessivo-protettivo reciproco.

Diffondere e radicare questi concetti fondanti non fu affatto facile negli anni dell’unificazione nazionale e della costruzione della Nuova Italia. Mancava quasi tutto: una lingua comune, parlata da una percentuale soddisfacente della popolazione o almeno dai ceti medi; la percezione dell’unitarietà del destino storico; il primato dell’interesse comune rispetto a quelli personali, municipali, di categorie e di classi. La prima battaglia campale fu l’alfabetizzazione. L’Italia partiva da lontano. Il primo censimento, nel 1861, documentò che molte regioni contavano un tasso di analfabetismo disperante. Mancavano aule e maestri. Poche scuole erano insediate in edifici nati per ospitarle. In molti casi vennero utilizzati conventi occupati con la statizzazione dei beni degli ordini religiosi “contemplativi” e di quelli scomodi (fu il caso dei Gesuiti, nel 1848 espulsi dal regno di Sardegna). Ma le celle un tempo abitate da clarisse o da altri congregazionisti quasi mai avevano i requisiti indispensabili per stipare classi che potevano ammontare sino a cinquantaquattro bambini per un solo maestro. Gli insegnanti furono sfornati e installati alla svelta. Quando ne mancavano, si nominavano sottufficiali. Il sergente che aveva comandato un plotone era sicuramente in grado di tenere a bada una classe e di insegnare i rudimenti, come avevano fatto nei decenni precedenti gli ecclesiastici: gli uni e gli altri per magro compenso, integrato con sportule dei genitori più abbienti. Il maestro, d’altronde, era onniscente. Insegnava tutto: scrivere, leggere, far di conto, storia, geografia… e anche rudimenti di agraria, regole di igiene e la “ginnastica”, che si faceva tra i banchi perché la quasi totalità degli edifici scolastici non aveva palestre, né attrezzi, tranne pochi bastoni.

Dal 1848 l’istruzione pubblica fu il banco di prova nella fase decisiva del Risorgimento: dalla Torino di Vincenzo Gioberti e Carlo Bon Compagni alla Toscana di Raffaello Lambruschini alla Napoli di Francesco De Sanctis, docente alla Scuola Militare della Nunziatella e autore del celebre Discorso ai giovani pubblicato da Giuseppe Catenacci. Però Ferdinando II di Borbone stracciò la Costituzione e arrestò gli esponenti del liberalismo (De Sanctis incluso) e in Toscana la gendarmeria di Leopoldo II d’Asburgo-Lorena fece risuonare il suo passo pesante per un altro decennio, mentre nello Stato pontificio (che andava dalla Ciociaria a Bologna e a Ferrara) l’osservanza rigida dei “precetti” aveva la meglio su ogni forma di educazione.

Il repertorio dei ministri della Pubblica istruzione dal 1859 rimane tra i vanti di maggior spicco della Nuova Italia. Tutti studiosi di fama europea. Il primo fu il milanese Gabrio Casati, che dette il nome alla legge organica (13 novembre 1859) passata dal Regno di Sardegna a quello d’Italia: quasi 400 articoli che ordinarono tutto, dalle scuole elementari al ministro stesso. La novità di maggior impatto fu l’obbligo per ciascun Comune di provvedere all’istruzione gratuita, con “una scuola per i fanciulli ed un’altra per le fanciulle (sic), parimenti aperta almeno per una porzione dell’anno nelle borgate o frazioni di Comuni che, non potendo a cagione delle distanze profittare della scuola comunale avranno oltre a 50 allievi. Nacquero le “scuole rurali”. Poco, ma meglio che nulla.

Dopo tante personalità di talento (De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, l’arabista Michele Amari, Giuseppe Natoli, Domenico Berti e Cesare Correnti, tutti massoni, nel 1867 venne nominato ministro il quarantaseienne Michele Coppino, nativo di Alba. “Umili genere natus” (il padre ciabattino, la madre cucitrice), cresciuto in seminario, all’Università grazie a un posto gratuito nel collegio delle antiche province, Coppino salì dalla laurea in lettere all’insegnamento nei ginnasi e alla cattedra di letteratura italiana all’Università di Torino, di cui divenne Rettore. Deputato dal 1860, poco dopo l’iniziazione nella loggia massonica “Ausonia” di Torino, da ministro Coppino tentò subito la via delle grandi riforme, ma la caduta del governo Rattazzi impose una lunga pausa. Il suo successore, Emilio Broglio, ebbe la pessima idea di chiedere consigli ad Alessandro Manzoni,  che, memore di aver “sciacquato in Arno” la sua parlata lombarda, mise in bella il progetto di insegnare il fiorentino a tutti gli italiani con maestri fiorentinofoni. Suscitò il sarcasmo di Giosuè Carducci, toscanaccio autentico. Coppino tornò ministro dopo Quintino Sella, Antonio Scialoja, Ruggero Bonghi, uno più illustre dell’altro, e nel 1877 varò la legge che decretò obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare. Tornato ministro dopo di lui, De Sanctis impose l’educazione fisica anche femminile per migliorare la “pianta uomo”, perché anche in Italia erano le donne ad assicurare il futuro della “nazione”.

Come altri liberali (di destra o di sinistra, liberali sempre) anche Coppino si domandò quale però fosse il confine tra istruzione ed educazione. La Scuola pubblica dispensava nozioni. Doveva e poteva inculcare anche “valori”? Quali? Di cittadino italiano, sì. Ma un italiano contrapposto ad altri popoli o affratellato? E come venivano plasmati i cittadini degli altri Stati? Il dubbio rimase. Anche perché la Nuova Italia doveva confrontarsi con i clericali, che nelle loro scuole insegnavano che i liberali andavano all’inferno, quello con le fiamme eterne, i ferri roventi e tutte le diavolerie istoriate nelle chiese.

Dopo decenni di braccio di ferro e una sequenza di ministri di prim’ordine (Paolo Boselli, Pasquale Villari, Ferdinando Martini. Luigi Cremona, Guido Baccelli, Nunzio Nasi, tutti prima o poi affiliati a varie logge) con Giovanni Giolitti venne tagliato il nodo gordiano: lo Stato avrebbe istruito lasciando libertà di educazione ai valori ma nel rispetto delle leggi. Libertà di insegnamento religioso, quindi, ma in luoghi, ore e con docenti “patentati”. Punto di arrivo fu la legge sulla cittadinanza italiana (1912), che è tra le meno ricordate dell’età giolittiana; eppure è la più importante. Venne rafforzata nel 1921 con la legge sull’Obbligo scolastico firmata da Giolitti e da Benedetto Croce, il filosofo e storico ministro al suo fianco. Quello fu il patto tra i cittadini e lo Stato. La Nuova Italia istruiva, educava e chiedeva ai cittadini di formarsi in libertà e nel rispetto delle leggi costate il sacrificio di generazioni di filosofi e storici messi a morte, di illuministi massacrati delle compagnie di Santa Fede, di patrioti e infine di quanti avevano dato vita al grande miracolo: il regno d’Italia, indipendente sempre isolato mai.

La cittadinanza non è un coriandolo che si getta per aria e ciascuno raccatta o calpesta a piacere. Essere cittadini è motivo di orgoglio. E’ il patto che tenne insieme gli italiani in quest’aiuola che ci fa tanto feroci.  (*)                                                                                   Aldo A. Mola

 

(*) Di Letteratura per l’infanzia e apprendistato della nazione italiana si è parlato ieri all’Università della Sorbona (Parigi)  con interventi di Mariella Colin, Viviana Agostini, Daniela Marceschi, Massimo Bucciantini e Aldo A. Mola per iniziativa di Laura Finocchiaro Fournier  e Christian del Vento.

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