La tradizione e la monarchia federativa

san_giorgio_verona

LA TRADIZIONE e LA MONARCHIA FEDERATIVA

La rivoluzione europea

In lingua castigliana la parola “rivoluzione” può significare molte cose. In astronomia dicesi rivoluzione il movimento completo che compie un pianeta o un satellite nel percorrere la sua orbita regolare. In medicina é un’alterazione e commozione tra gli umori. In senso generale, é l’azione di rivolgere o rivoltarsi.

Con tutto il rispetto per certe nuovissime accezioni, é sicuro che sin dall’antichità, nella sua accezione politica, la rivoluzione é l’inquietudine, il chiasso, la sedizione o la grave alterazione in una società o in uno Stato, ossia una perturbazione negativa dell’ordine sociale vigente. E così a tal punto che l’insospettabile autorità di Roque Barcìa nel suo Diccionario general etimològico (1), riconosce che solo metaforicamente si può intendere la rivoluzione come nuovo ordine nel governo delle cose, dandole un senso costruttivo. Ma nel castigliano corretto rivoluzione implica qualcosa di negativo; é la negazione dell’ordine, il baccano, la violenza scapigliata e distruttrice. Quando la violenza non distrugge, ma ricostruisce l’antico ordine nella sua perfezione più bella, non la si chiama rivoluzione bensì restaurazione. I due secoli di abbellimento della parola – spesi dal pensiero europeo dal 1789 – cercando di attribuirle la valenza positiva di “ordine nuovo”, nulla possono contro l’inesorabile autenticità della lingua castigliana che equipara la rivoluzione al disordine.

Come altri termini politici, “rivoluzione” é vocabolo che entra nel dizionario del diritto pubblico in una precisa epoca: intorno al 1600 in Francia, durante uno degli attriti delle Spagne contro l’Europa. Quando Enrico IV compra Parigi al prezzo di una messa machiavellicamente sacrilega, i suoi nemici del partito spagnolo o della Lega vanno a rendere omaggio al nuovo cattolico già re, con un opportunismo da cui si discolpano spiegando: ” Que voulez-vous? C’est la révolution ” (2). Da allora il termine “rivoluzione” passa ad acquisire il significato di cambiamento politico radicale contrario all’ordine, non di ristabilimento violento dell’ordine.

E’ un significato che soddisfa le esigenze del politico, ma resta incompleto per lo storico, perché la storia impone di distinguere la serie di cambiamenti politici parziali dal grande processo che nega i sistemi culturali e politici cristiani, iniziato con la devianza eretica costituita dal protestantesimo, continuato in Inghilterra nel secolo XVII e nell’America del Nord nel XVIII, il cui apice é la profonda alterazione del 1789.

 

La rivoluzione scusata

La filosofia hegeliana e totalitaria del secolo XX ha preteso di superare il significato negativo di quanto é rivoluzionario, cercando un contenuto creativo nell’antica rivoluzione demolitrice: appoggiandosi ad Hegel con fedeltà innegabile e considerando come tesi il vecchio ordine e come antitesi i movimenti liberali, contestualmente soppressi e assorbiti nella tipica funzione dello ” aufheben ” hegeliano, innalza come sintesi le rivoluzioni creatrici dello Stato totalitario, come momento dinamico di questo. Se lo Stato totalitario sintetizzava e superava (” aufhob “) gli Stati assolutisti e quelli liberali, la rivoluzione che lo genera sintetizza e supera l’ordine antico con la rivolta borghese o marxista. Negativa per quanto sopprimeva, era positiva per quel che conservava, divenendo così creatrice ed effettivamente positiva.

Questa nuova accezione della parola “rivoluzione”, così in contrasto col modo tradizionale di parlare in Castiglia e con la generale terminologia prehegeliana, si é fatta largo nel nostro secolo al riparo dei nuovi linguaggi del nazional-socialismo hitleriano, del fascismo mussoliniano e del bolscevismo comunista.

Il più sicuro degli hitleriani speculativi, Julius Binder, teorizzò la rivoluzione creatrice in un System dei Rechtsphilosophie con accenti che non sono stati superati da nessun altro teorico del totalitarismo di alcuno dei movimenti paralleli. Binder lega la nozione di rivoluzione alla relazione dialettica, stabilita da Hegel, tra la norma e la contronorma, tra ” Satz ” e ” Gegensatz “, in funzione del postulato dell’identificazione del reale col razionale. Julius Binder, opponendosi all’ebreo A. Liebert che nel suo Vom Geist der Revolutionen aveva nel 1919 conservato il senso liberale di cambiamento distruttivo in ambito politico, sostiene che nella ragione si giustificano sia la norma che la contronorma del diritto futuro, per la stessa ragione che il divenire dialettico giustifica nello stesso tempo la tesi e l’antitesi, essendo la rivoluzione la ” Trägerin der Idee ” ed il sostegno dell’idea rinnovatrice che sostituisce il sistema anchilosato della tesi con la nuova sintesi giuridica. Come in questa sintesi si usano degli elementi della tesi, così nel diritto nuovo si conservano ingredienti – trasformati – dell’antico; la rivoluzione é l’agente creatore che opera tale cambiamento nella macchina sociale e giuridica della vita collettiva della comunità popolare (3).

Questa mutazione corrisponde al cambiamento dalle rivoluzioni distruttrici alle rivoluzioni conservatrici, nel confusionismo terminologico che identifica rivoluzione con restaurazione, senza fare altro

che aggiungere alla prima l’aggettivo “nazionale”. Dal che si ripete la lettura di Hegel fatta da Georges Sorel, che postula degli orientamenti ” vérs un idéalisme constructif “. Già nel 1932, un tedesco, Michael Freund, nel suo Georges Sorel, der revolutiönäre Konservativismus , aveva additato la possibilità di una rivoluzione conservatrice, con termini ripresi da Gustavo Glaeser in un articolo pubblicato nella rivista Critica fascista , del 15 settembre 1933, titolato Attualità di Sorel . Questa é l’opinione successivamente canonizzata dall’alta autorità di Sergio Panunzio, quando nella sua Teoria generale dello Stato fascista definisce il fascismo come ” un grande fatto storico di conservazione rivoluzionaria ” (4).

Questo punto é talmente connesso alla prospettiva della speculazione totalitaria – nella misura in cui questa deriva dall’hegelismo -, che la sintesi che abbiamo visto aver luogo tra fascisti e nazional-socialisti si verifica pure nel bolscevismo russo. Nell’articolo Dialecktiskii Materialism , pubblicato nel tomo XXII dell’ Enciclopedia sovietica , un uomo dell’importanza di A. V. Stchoglov parte dalla legge della ” zakon otrichaniya otrichaniya “, la legge della negazione della negazione, per dimostrare un principio positivo nel quale la negazione sia ” snimaechya “, cioè superata, raccolta e soppressa contemporaneamente: esattamente quel che gli hegeliani chiamerebbero ” wird aufgehoben “. Col che si produce la rivoluzione conservatrice, implicita nella riapparizione del nazionalismo russo assieme alle riforme sociali comuniste. Nella Storia del partito comunista , pubblicata ufficialmente a Mosca nel 1950, si parla di rivoluzione dall’alto, con frasi attribuite allo stesso Stalin (5).

Tuttavia, nonostante il suo imponente apparato filosofico, la concezione totalitaria della rivoluzione non eccede le dimensioni della precedente tematica della rivoluzione distruttrice, perché si continua a partire dal fatto demolitore che distrugge quanto esisteva precedentemente, quali che siano le spiegazioni dottrinali addotte per gli effetti di distruzione inerenti tutte le imprese rivoluzionarie. Questa spiegazione é in fondo talmente semplice da definire la possibilità tanto della rivoluzione creatrice di tipo hegeliano, quanto la giustificazione positivista della rivoluzione seccamente distruttrice. Perché coloro che difendono la realtà rivoluzionaria partendo da una concezione biologica del diritto, come fa lo straripamento impetuoso di una corrente politica, finiscono col confondere il reale col razionale o quantomeno a subordinarlo, innalzando la storia a regola e il mutamento rivoluzionario fattuale a principio: gli uni e gli altri non cercano affatto di assoggettare i dati storici alle regole di una metafisica che li precede.

 

La rivoluzione davanti al pensiero tradizionale

Quella soggezione dei fatti a una precedente metafisica é ciò che caratterizza il pensiero politico spagnolo quando analizza la rivoluzione, sia sul suo molteplice piano politico, che nel senso di processo corrosivo moderno ed europeo attribuitole dalla filosofia della storia. Se fosse possibile riassumere l’attitudine dei pensatori ispanici che hanno affrontato il problema da tre secoli ad oggi, direi che per essi la rivoluzione é primariamente un male e, in secondo luogo, un assurdo.

I nostri classici politici sostenevano che la rivoluzione é un male perché porta con sé la negazione dell’ordine dell’universo, buttando apertamente a mare, in modo radicale e violento, i dogmi pazientemente depurati generazione dopo generazione, che integrano il tesoro spirituale di un popolo (6); é la negazione della Tradizione, soppressa alla radice dall’impeto rivoluzionario, invece di venire logicamente e progressivamente migliorata. Nessuno meglio del mio connazionale Donoso Cortés ha esposto questo significato distruttore e nemico dell’ordine – e quindi malvagio -, della rivoluzione, quando scrive, nella conclusione del suo famoso Saggio , che essendo l’ordine necessario alle società e le rivoluzioni un cambiamento disordinato di esso, logicamente non sono neppure concepibili; infatti ” E’ a tal punto necessario che tutto sia soggetto a un ordine perfettissimo, che l’uomo, pur avendo portato il disordine in ogni cosa, non riesce a concepire il disordine; per questo motivo, non c’è rivoluzione che, nel distruggere le istituzioni precedenti, non le distrugga in quanto assurde e perturbatrici, e che nel sostituirle con altre di arbitraria invenzione non le dica costitutive di un ordine eccellente ” (7). Ordine nuovo rivoluzionario che lo stesso Donoso Cortés qualificò, nel capitolo V del terzo libro del Saggio , né più né meno come ” la nobiltà del crimine “.

L’assurdo della pretesa rivoluzionaria risalta in modo manifesto quando la si confronta con la concezione cristiana dell’universo. Quando sant’Agostino ci ha definito con frasi incomparabili quale sia il concetto cristiano dell’ordine universale, non si é limitato a descrivere la gerarchia delle cose naturali, bensì vi ha aggiunto la costituzione delle società umane, cosa evidentemente logica, perché l’ordine ha radice nella legge eterna e questa abbraccia la totalità degli aspetti della creazione, comprendendo quello fisico, quello morale e quello politico. Dice sant’Agostino nel primo paragrafo del capitolo XIII del XIX libro del suo De civitate Dei : ” Pax civitatis, ordinata imperandi atque obediendi concordia civium. Pax coelestis civitatis, ordinatissima et concordissima soietas fruendi Deo in invicem in Deo. Pax omnium rerum, traquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio ” (8).

Dal che si ricava: primo, che il benessere della comunità consiste nell’ordine che la rivoluzione nega, per cui la rivoluzione é intrinsecamente cattiva; secondo, che l’alterazione che la rivoluzione provoca presuppone una rottura – opera dell’uomo e contraria al corso della storia – della perfezione dell’ordine. Il ” natura non facit saltum “, implica nell’ordine sociale – in cui si attua la libertà dell’uomo – la negazione dei radicali cambiamenti rivoluzionari, attribuibili perciò alle conseguenze della ribellione condannata nel primo precetto dei comandamenti del Decalogo. E’ per questo che a ragione Antonio Aparisi y Guijarro ha detto: “Sarete dei : questa frase detta ai primi uomini compì la prima rivoluzione. Sarete re : questa frase detta ai popoli, ha dato corso all’ultima. Sempre l’orgoglio! ” (9).

 

La tradizione

Contro la teoria della rivoluzione in ogni sua forma, il pensiero ispanico ha inalberato la visione di un ordine progressivamente migliorato senza salti nel vuoto, che é quanto si denomina con Tradizione.

La Tradizione nasce dalla vita, essendo nelle parole di Enrique Gil y Robles la ” continuità della vita umana ” (10). Ogni vita coagula in un insieme di esperienze ed opere che rimangono quando l’uomo, che le ha realizzate o raccolte, scompare dalla scena dei viventi; ogni esistenza umana elabora un tesoro trasmissibile a coloro che verranno dopo, essendo proprio la capacità di ereditare il tesoro accumulato dalle precedenti generazioni quel che distingue l’uomo dagli animali irrazionali. Quando nasciamo non lo facciamo astrattamente, ma col possesso di formule vitali trasmesseci dai nostri padri, che integrano quel che chiamiamo la nostra cultura e la nostra tradizione; per questo motivo Donoso Cortés disse superbamente che ” i popoli senza tradizioni diventano selvaggi ” (11).

Quel tesoro é soggetto a due criteri di selezione: il vigore degli elementi trasmessi permette la sopravvivenza di alcuni eliminandone altri, secondo una proiezione nella storia delle tensioni vitali presenti; e le opere dell’uomo si sottomettono a regole cui si deve assoggettare l’uomo stesso, per la sua condizione di creatura responsabile davanti alla legge di Dio. Nel primo caso la Tradizione si purifica, in modo naturale, nello svolgersi logico della storia; nel secondo caso la Tradizione si depura metafisicamente nella pietra di paragone costituita dalla legge di Cristo.

La differenza che distingue la nostra civiltà ispanica con la civiltà europea é appunto che, essendo la Tradizione consustanziale alla vita umana, l’Europa non ammette altro che la cieca depurazione meccanica promanante dallo scontro delle forze spirituali e sociali, mentre la filosofia tradizionale media i risultati degli sforzi umani – in proiezione verso il futuro – con i principi della verità cattolica. Per l’Europa tutto é storia viva senza metafisica previa; per la Spagna la metafisica é sempre stata metro dell’avvenire. Per l’Europa si deve tenere conto solo dell’opera dell’uomo; per le nostre genti gli affari dell’uomo devono sempre accordarsi con quelli di Dio. In definitiva tutto consiste nel sopprimere o mantenere lo schema del cosmo come dialogo tra l’Onnipotenza divina e l’ineludibile libertà dell’uomo.

Positivisti o hegeliani canonizzano i fatti e riducono la tradizione ai residui che i fatti hanno lasciato, senza distogliere gli occhi dal vile cammino costituito dalla storia. I cristiani, al contrario, lungi dall’ammettere in blocco i fatti dando loro valore per la forza che permise loro di lasciare tracce, coniugano i fatti e gli uomini che li hanno compiuti con alcuni canoni superiori, con le regole che vengono direttamente da Dio. In definitiva, nella dualità delle tesi relative al contenuto della tradizione politica, appare ancora una volta l’opposizione antitetica tra la civiltà teocentrica di cui siamo continuatori e la civiltà antropocentrica che nel capitolo II ho definito civiltà europea.

 

Tradizione e progresso

Tuttavia, senza uscire dai canali della verità cristiana e della metafisica che vaglia previamente, la Tradizione é l’operare degli uomini e dunque dipende da ogni azione umana. Quel che riceviamo dagli antenati non coincide con quanto trasmettiamo ai discendenti, perché nella massa culturale che trasmettiamo inseriamo il nostro personale apporto, il frutto del nostro operare stesso. Questo apporto, che ogni generazione aggiunge a quel che ha ricevuto dalle generazioni precedenti, é il progresso.

Dal che risulta l’assurdità della posizione che soleva contrapporre la tradizione al progresso, giacché non esiste progresso senza tradizione, né tradizione senza progresso. Progredire é mutare naturalmente e migliorare qualcosa della Tradizione ricevuta dal punto di vista morale; se questa manca, se non c’è materia da riformare, il progresso é impossibile. Tuttavia, anche la Tradizione considerata come massa immutabile é qualcosa di morto, un’archeologia pietrificata, un blocco inutile. Se gli uomini non trasmettessero la Tradizione ricevuta aggiungendovi la propria impronta personale, la Tradizione sarebbe un cadavere.

Anche nel pensiero. Combattendo successivamente l’assolutismo e il liberalismo, gli eccessi dell’autorità e quelli della libertà, la tirannia di uno solo e quella di molti, gli argomenti immutabili devono essere esposti con un cambiamento frontale per rispondere alla specifica modalità operativa del nemico. E’ quanto diceva in modo splendido Vàzquez de Mella quando definiva in cosa consiste il progresso della Tradizione: ” perché – erano le sue immagini – non la credo per come é presentata: uno stagno di acque ferme e invariabili, che non possa essere accresciuto da nuovi rivoli che scendono dalle fonti pure della montagna ” (12).

 

La Tradizione delle Spagne

La Tradizione delle Spagne é nata nella lotta. La Reconquista ha dondolato la sua culla con l’incrociare di spade e la Contro-Riforma ha sfiancato il suo slancio sbriciolando le lance dei nuovi crociati nelle Fiandre di cinque continenti. E’ una Tradizione di combattimento militare, di senso missionario puro, nata contro la moltitudine dei mori maomettani ed affilata contro l’eresia protestante.

Dal che derivano le sue due caratteristiche, storica e di ideali.

Storicamente la Tradizione delle Spagne é integrata dall’insieme delle Tradizioni di ciascuno dei popoli che le compongono. Vale a dire che é una Tradizione unica, ma variegata e multiforme nelle sue espressioni sociali e storiche in conformità all’idea dei Fueros . Nella penisola comprende le tradizioni particolari di Castiglia, della Galizia, del Portogallo, dei tronchi di Euskalerria e della Catalogna, dell’Andalucìa, di Aragona e altre minori; in America, quella di tutti popoli che vivono dal Rìo Grande al Sud; in Oceania, quella delle Filippine; nelle terre d’Occidente, i brandelli di tempo in cui Napoli, la Sardegna o le Fiandre servirono l’impresa universale capitanata da Castiglia.

Dal punto di vista degli ideali é l’instaurazione dei comandamenti di Cristo come leggi del vivere sociale, ristabilendo nelle circostanze d’oggi quello spirito che fu nella Cristianità medievale. Da cui ne viene che, essendo partita da un pezzo di terra d’Occidente, abbia – ed essa sola l’abbia – una trascendenza dai confini universali.

 

I Fueros

La Rivoluzione costituita dall’Europa si fonda su due fatti cardinali: l’idea dell’uomo come essere astratto e la concezione meccanicistica dell’ordinamento politico. Il pensiero tradizionale spagnolo contrappone a queste l’idea dell’uomo concreto come essere storico e la concezione dell’ordinamento come insieme organico di posizioni vitali concrete. E’ un’attitudine che si cristallizza nei Fueros , manifestazione legale e politica della visione della comunità come “corpus mysticum” di cui parlano i nostri classici politici.

La parola castigliana “fuero” deriva da quella latina “forum”, nome del luogo in cui si amministrava la giustizia, passata poi a significare le sentenze emesse e, più tardi, le leggi particolari di una città o estamento , per indicare finalmente l’insieme di norme peculiari in base alle quali ciascuno dei popoli spagnoli si governa; un senso – quest’ultimo – che possiede nei classici della Tradizione spagnola e a cui si riferisce il presente capitolo.

In questo senso i Fueros presuppongono: primo, l’idea dell’uomo come essere concreto; secondo, che le libertà, o sfera d’azione dei diritti di ogni uomo nelle circostanze in cui vive, si inquadrino in ogni popolo negli ordinamenti legali e sociali prodotti della sua tradizione particolare; terzo, che nella lotta tra libertà e uguaglianza che corrode il pensiero rivoluzionario, é necessario affermare il primato della libertà; quarto, che contro la Libertà astratta della rivoluzione sono da preferirsi i sistemi di libertà concrete delle diverse tradizioni ispaniche, e, quinto, che i Fueros sono l’unica solida garanzia di autentica libertà politica.

Uomo astratto e uomo concreto

La filosofia politica della Rivoluzione uso l’uomo come misura di tutte le cose, indipendente dagli ordinamenti divini, trasformandolo in asse e centro dell’universo. L’ottimismo antropologico affratella Rosseau a Kant e ai legislatori dell’89. Rousseau idealizza alla perfezione l’uomo astratto, il selvaggio senza tradizioni, buono per definizione; Kant esalta la perfezione dell’uomo in se, indipendentemente dalle tradizioni culturali, creandolo capace di intendere il cosmo attraverso l’uso che la sua ragion pura fa dei dati del reale, e di sapere cosa sia giusto per mezzo della nuda autonomia della sua volontà “autonoma”: gli uomini dell’89 non dichiarano quali siano i diritti dell’uomo francese, bensì quelli dell’uomo astratto e senza tradizioni. Per l’Europa l’uomo manca di storia, é un essere sprovvisto di un passato vivo.

Il successivo sviluppo di tale idea si svolge sotto un identico segno. Nella democrazia egualitaria ogni uomo possiede un voto, senza attenzione al suo valere né alla sua cultura, perché a priori tutti sono considerati uguali, giacché nulla conta della condizione storica concreta di ciascuno, ma solo la sua astratta condizione umana. In futuro verrà il giorno in cui questa inconcepibile ideologia democratica – oggi così diffusa – sarà considerata una cosa da pazzi, in virtù della quale sono uguali uomini nati con attitudini diverse e cresciuti disuguali; sembra una bugia che oggigiorno la maggioranza delle istituzioni dell’Occidente riposino sulla demenza di equiparare quanto a diritti politici i buoni ed i malvagi, gli svegli ed i tonti, i letterati con quelli che non sanno leggere. Sarà un’altra “pazzia d’Europa”, da aggiungere a quelle già rilevate da Diego de Saavedra Bajardo – parlando del senso comune della Tradizione delle Spagne – tre secoli fa.

Nemmeno il totalitarismo fa distinzione tra gli uomini; quel che accade é che la democrazia li consideri uguali attribuendo loro lo stesso valore per inserire un voto nelle sue urne, mentre il totalitarismo concede loro identico valore per obbedire agli ordini di un dittatore, incarnazione di telluriche ed oscure volontà di assorbimento e, in quanto tali, sempre incontrastabili. Ma entrambi, liberalismo e totalitarismo, partono dallo stesso stampo filosofico: l’idea dell’uomo astratto.

E’ un’idea che compare alla nascita dell’Europa. Anteriormente, nei secoli della Cristianità, la società cristiana possedeva un ordinamento gerarchico ed organico; ogni uomo apparteneva ad un determinato gruppo sociale, sia che fosse religioso (ordini o confraternite), religioso-militare (ordini di cavalieri), economico (corporazioni) o politico ( brazos o estamentos ). Lo sforzo personale faceva salire l’inferiore ai gradi superiori del corpo mistico sociale, ma questo fruiva di una solida struttura poiché – dentro di esso – ogni membro faceva parte di un ordine ed era un elemento che costituiva una gerarchia. La comunità organica cristiana, secondo l’idea dell’uomo concreto, fu il presupposto delle cattedrali tomiste costituite dalle “Summae” e il sodalizio umano più adeguato all’ordine divino in tutto il corso degli astri siderali.

Al momento della gestazione dell’Europa, verificatosi nel corso delle agitazioni del secolo XV, inizia in Italia la perdita del senso organico della società, che sostituisce la struttura orizzontale degli estamentos con una verticalizzazione dei raggruppamenti. Allora lo spirito individualista, che sfocierà nel meccanicismo europeo, spinto da una irrefrenabile ansia verticalista scavalca tutte le

barriere, rimuovendo le precedenti strutture politiche. Come scriverà Alfred von Martin ” the Middle Ages in their structure as well as in their thought had a rigidily graduate system. There was a piramid of States as well as a piramid of values. Now these piramids are about to be destroyed, and ‘free competition’ is proclaimed as the law of nature “(1).

I “condottieri” italiani che – a Firenze o Siena – lottano per impadronirsi della “città”, cercano sostenitori in tutti i settori sociali, in modo tale da trascinare indistintamente chierici, nobili, commercianti, letterati ed artigiani. Dall’apice della visione organica della società conosciuta dalla Cristianità, sorge una nuova divisione politica del corpo sociale: quella che si verifica tra gli amici ed i nemici del “virtuoso uomo di fortuna”. Così, quando uno Sforza o un Medici salgono al potere, fondano uno “Stato”, ossia creano una struttura forte che permette loro di continuare a comandare. Con questa struttura nascono le fazioni, e secondo questo criterio qualche secolo dopo appariranno i partiti politici, aventi come regola il classificare gli uomini sulla base di criteri astratti e non a seconda del posto che ciascuno occupa nel seno del corpo mistico collettivo. Il profondo significato del Principe di Macchiavelli consiste – a parte la trasmutazione della tavola dei valori etici -, nel fatto che raccoglie quella nuova realtà sociologica, facendola entrare nella mentalità europea.

Poco a poco, col crescere ed irrobustirsi dell’Europa, l’idea dell’uomo astratto acquista vigore. L’aiuteranno a salire lo spirito romanicheggiante – che offre all’assolutismo regio l’occasione per disfare completamente la composizione organica della società, instaurando quel dualismo che Boutmy avrebbe definito come la contrapposizione tra l’infinitamente grande dello Stato e l’infinitamente piccolo dell’individuo isolato (2) -, lo stile borghese delle società protestanti – con quello spirito individualistico d’impresa, che nasce in Olanda e Inghilterra come conseguenza della scissione luterana tra natura e grazia, nel quale Werner Sombart ha posto la chiave del moderno capitalismo (altro fenomeno tipicamente europeo) -, e, specialmente, il nuovo spirito filosofico: quando Cartesio dubita della realtà circostante comincia a fabbricare un mondo per ciascun io astratto; un’intenzione che Kant tradurrà in sistema; un sistema che é nient’altro che la chiave dell’Europa contemporanea.

E’ un’Europa in cui l’uomo crea il proprio mondo – ad opera di Kant – gnoseologicamente e persino ontologicamente – grazie all’idealismo trascendentale di Fichte -; un’Europa in cui la società consiste in un processo meccanico, un mucchio di granelli di frumento sovrapposti a caso; un’Europa in cui l’uomo, spogliato delle tradizioni, diviene mero ” homo oeconomicus “; un’Europa che non vuole saperne più di corporazioni, ma solo di partiti politici, molteplici nelle democrazie ed unico nel totalitarismo; l’Europa che ignora l’uomo concreto della Cristianità e conosce solo l’uomo astratto della Rivoluzione.

Liberalismo e uomo astratto

Dice Maurice Hauriou che ” l’organizzazione costituzionale ha per oggetto il fornire delle garanzie di libertà ” (3). E’ la trascrizione del secondo principio della Dichiarazione dei diritti dell’uomo , dichiarazione dei diritti dell’uomo astratto, in cui si legge: ” Il fine di ogni associazione politica é la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dei suoi membri “.

Orbene, quell’ordinamento costituzionale possiede un carattere meccanico. ” E’ – ci dice lo stesso Hauriou – il risultato dell’equilibrio tra l’ordine e la libertà, tra quanto c’è e quanto deve ancora venire ” (4).

Ma chi regola quell’equilibrio? Per l’uomo liberale solo una cosa: le maggioranze elettorali. E come nascono tali maggioranze elettorali? Secondo il criterio un uomo, un voto , cioè in tono con l’idea astratta dell’uomo. Per il liberalismo la rappresentanza sarà, pertanto, “nazionale”, ossia, volta alla totalità del corpo sociale senza graduare le qualità presenti nel suo seno; e sarà, inoltre, una rappresentanza slegata da qualsiasi contatto con l’elettore, venendo proibito ogni tipo di mandato imperativo, al fine di dare corso effettivo alla nozione della rappresentanza astratta nell’astratta idea dell’uomo. Un Esmein (5) o un Carré de Malberg (6) definiscono l’idea di rappresentanza democratica in base a questa concezione astratta dell’essere umano.

Totalitarismo e uomo astratto

Il totalitarismo percorre gli stessi passi, perché in definitiva non fa che tentare di superare la molteplicità di politiche con una sola e la varietà anarchicamente meccanicistica dei partiti col dominio inesorabile di un partito solo.

Quando Lorenz von Stein apre le porte al marxismo impostando la realtà economica come realtà politica, apre la strada a che Marx costituisca un partito di classe avente per meta non la riedificazione della società sulla base degli strati professionali, orizzontali e apolitici; un partito che unificherà la società con un ordinamento esclusivamente politico e verticale, sopprimendo qualunque possibilità di libertà, quale che sia.

E quando il “Partito”, “Partei” o “Partiya” assume in Italia, Germania o Russia il ruolo di educare il popolo a fini politici – ad esempio nelle teorie di Sergio Panunzio, di Carl Schmitt o di Arshanov -, va a sopprimere ogni libertà politica sugli altari dell’unificazione esterna e dell’ansia di conservare il potere di determinate strutture verticali, esattamente uguali a quelle delle “fazioni” che appoggiavano i “condottieri” rinascimentali. E sempre dando valore all’uomo come “homo oeconomicus” o in quanto soggetto passivo di sudditanze supine, mai come l’essere concreto che é, con peculiarità che oltrepassano lo stomaco o il comando.

Tradizione e uomo concreto

Contro a questi atteggiamenti europei, bisogna pensare che l’uomo é un essere integro, che nasce con una prospettiva ultraterrena in una cornice terrena. Bisogna credere che non nasce, come gli animali, per mangiare o imporsi con la violenza, ma in funzione di guadagnare – in alto – il cielo, e di continuare – in basso – una linea storica concreta. Bisogna concepire la società ordinata orizzontalmente in accordo a interessi morali o materiali, non verticalmente in uno o numerosi partiti politici. Bisogna affermare che la filosofia politica deve partire dall’uomo concreto e non dall’uomo astratto.

Pensando alla spagnola, che é pensare alla cristiana, l’uomo é stato dotato di libertà da Dio perché la esercitasse in circostanze date concretamente, sino al punto che un esercizio simile é – sul

piano teologico – il mezzo che Dio ha posto nelle sue mani per guadagnare la felicità a cui é chiamato. Essendo missione della politica non il definire astrazioni irrealizzabili, ma il rendere possibile ad ogni uomo l’esercizio della libertà nella scelta del suo destino trascendente – sviluppando la sua natura liberissima in modo da non nuocere a sé, né risultare pregiudizievole all’ordine sociale di cui fa parte -, la cosa sarà possibile solo quando la convivenza umana si articolerà in sistemi organici di libertà concrete, che permettano alla persona, fisica o morale, di orientare il suo operare al raggiungimento dei suoi fini peculiari. La realtà storica ed il radicamento metafisico dell’uomo proclamano la sua condizione di essere concreto, capace di usare solo libertà politiche concrete.

Contro la negazione delle libertà, implicita nei totalitarismi, e contro la Libertà astratta, generata dall’89, la Tradizione spagnola ha alimentato la realtà storica dei Fueros come un sistema di libertà storiche concrete.

Tra le libertà. Libertà ed uguaglianza.

La cosiddetta civiltà occidentale ritiene di aver raggiunto un livello di maturità sufficiente ad edificare la vita associata sul principio della Libertà umana. Si parla e si scrive come se la “Libertà” dell’uomo sia presente nell’ideologia che ha creato la rivoluzione francese del 1789, madre dell’attuale pensiero politico occidentale. Ma ne siamo certi? Si sono realizzati oggi, nel 1953, i sogni accarezzati nella congiura connotata dal suono de “La Marsigliese”? La Francia, l’Inghilterra e l’Italia, sono paesi davvero liberi?

Cercherò di rispondere a questa domanda.

Il pensiero rivoluzionario implicava, per come venne formulato nelle giornate del 1789 e volendo credere a quanto dicevano i suoi sostenitori, da un lato un principio di libertà per gli individui che componevano il corpo sociale, dall’altro il governo in tono con la volontà delle maggioranze. Nella massima formulazione della Dichiarazione dei Diritti , già si coglievano entrambi gli aspetti. Nel secondo articolo veniva stabilito che ” il fine di ogni associazione politica é la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo; questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione ” (7). Mentre nell’articolo 6 si determinava che ” la legge é l’espressione della volontà generale; tutti i cittadini hanno diritto a concorrere personalmente, o per mezzo di loro rappresentanti, alla sua formazione ” (8). Il primo fu il principio della libertà individuale, il secondo quello della sovranità nazionale o popolare; entrambi vengono mescolati nel contenuto della tematica filosofico-politica della rivoluzione.

Ciò nonostante si contraddicono profondamente, perché il primo si occupa di difendere l’individuo contro la maggioranza, mentre il secondo costruisce una maggioranza senza freni. Perché l’articolo 2 guarda al cittadino ed il 6 alla maggioranza numerica. Perché la libertà suppone un limite e la sovranità di per sé non conosce barriere, sotto pena di cessare di essere tale. Sono cose diametralmente opposte, anche se mescolate in diverse raccolte di diritti nelle varie costituzioni seguite alla rivoluzione.

Il motivo per cui entrambi i principi, benché contraddittori, si trovano nello stesso documento, é dovuto alla doppia paternità dell’ideologia rivoluzionaria, che da un lato vorrebbe beneficiare della tradizione inglese – portata nel continente da Montesquieu – e dall’altro reclama per sé l’eredità spirituale del pensiero astratto dell’Enciclopedia francese. La concretezza dell’esperienza inglese e della sua continuazione nordamericana avrebbe richiesto una dichiarazione di diritti sul genere di quelle inglesi del 1629 e 1688, o di quelle della Virginia del 12 giugno 1776 e del Massachussets del 2 marzo 1780, per citare solo le più rilevanti. La novità consistette nel riempire quelle formule anglosassoni col contenuto astratto dell’ideologia enciclopedista.

Cesare Cantù, il grande storico del secolo scorso, aveva già osservato questa contraddizione quando scrisse quanto segue: ” Nonostante la rivoluzione avesse tutti i caratteri della violenza, voleva presentarsi sovente col ruolo di imitatrice, e pretendeva di fare la parodìa della rivoluzione degli anglo-americani. Ma per portare a termine un’impresa così grande era necessario porre mano a quelle verità pratiche che spuntano le armi della confutazione e non sono soggette a rettifica. Mirabeau diceva – con la residua ragione – che la libertà non é il prodotto di teorie astratte, né di corollari filosofici, e che le leggi azzeccate sono il prodotto dell’esperienza che quotidianamente si acquisisce e dei ragionamenti che si svolgono in una serie di osservazioni sui fatti. Nella tanto meditata Dichiarazione non si fissò il vero senso della parola diritto, e definizioni, massime, principi, si agglomerarono tutti indistintamente; si frammischiarono verità chiare e sacre con altre non ammesse dalla storia né dai costumi; e si arrotolò tutto in formule vaghe e indeterminate, che il popolo non capiva e delle quali non potevano trarre partito neppure l’esiguo numero dei filosofi. Anche gli inglesi, dopo la rivoluzione del 1688, redassero una dichiarazione di diritti; ma si deve notare, innanzi tutto, che quella dichiarazione, la quale ebbe luogo dopo

una rivoluzione, non faceva altro che enunciare chiaramente e semplicemente alcuni canoni non soggetti a discussione o contraddizione, diretti solo a garantire dei diritti positivi. La Costituzione francese aveva invece carattere di universalità e preparava una costituzione interamente nazionale; l’individuo reale ed esistente veniva offerto come vittima alla creazione fantastica di una cosa pubblica immaginaria; si facevano regolamenti astratti per l’uomo astrattamente considerato, invece che per ventisei milioni di francesi viventi in una determinata epoca e che avevano propri costumi speciali ” (9).

L’affanno di copiare gli antecedenti inglesi portava da sé i criteri per la libertà. Il prurito dell’astrazionismo conduceva alla democrazia. Montesquieu soggiace all’articolo 2, ma Rousseau alita all’ombra dell’articolo 6. L’equilibrio crea la libertà, dirà quello; la maggioranza ha sempre ragione, opinerà questo. Il dualismo libertà – democrazia, esperienza inglese – filosofia continentale enciclopedista, ragione – volontà, Montesquieu – Rousseau, equilibrio di poteri – volontà generale, articolo 2 – articolo 6, é l’antagonismo senza pari che lacera la trama interna della filosofia politica rivoluzionaria.

All’inizio, in Francia, predomina l’idea di libertà su quella di democrazia. Questa età aurea del liberalismo culmina, principalmente, nella ” Charte ” del 1830, proprio perché in essa quel che si desidera é assoggettare le decisioni della maggioranza, subordinandole all’auspicato criterio di forgiare un circuito vitale in cui la maggioranza non possa intromettersi. La filosofia politica dei dottrinari viene presieduta dal dogma inglese secondo cui ” la mia casa é il mio castello ” (10).

E’ per questo che i dottrinari postulano un concetto intellettualista della legge. Tutto il primo capitolo del Cours de politique constitutionelle , di Benjamin Constant, é un tentativo di salvare tale postulato superando le dottrine di Rousseau. E’ da qui che i dottrinari riducono lo stampo del perfetto ordinamento politico a una trama di poteri equilibrati tra loro, vedendo in ciò le massime garanzie per la libertà. Non contenti dei tre poteri classici che Montesquieu aveva osservato in Inghilterra, e timorosi che talvolta si potesse rompere l’equilibrio del potere esecutivo col legislativo e col giudiziario, nella cui relazione consiste la libertà, crearono un quarto potere, senz’altra missione che quella di mantenere perfettamente quell’equilibrio: il potere reale di Clermont-Tonnerre, il potere moderatore della Costituzione spagnola del 1876.

E’ per questo che l’obiettivo di tutti i dottrinari é salvaguardare il paragrafo 2 della Dichiarazione del 1789 appoggiandosi sul 16, ossia sulla nozione secondo cui ” ogni società nella quale la garanzia dei diritti non é assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha punto Costituzione ” (11).

Di conseguenza, dentro la ” Charte ” del 1830, affinché vi sia il liberalismo, non esiste la democrazia. La separazione tra cittadinanza attiva e passiva era già stata stimata dalla Costituzione del 1791, venendo regolamentata in base a criteri economici che si concretizzavano nel pagamento di 1,50 franchi di tasse; un principio raccolto nella Costituzione dell’anno III, la quale elevava anche l’importo dell’imposta al salario corrispondente a tre giornate lavorative. La ” Charte ” regalista del 1814 alza la quota elettorale a 300 franchi di imposta per fruire del suffragio attivo e a 1000

franchi per possedere quello passivo. La ” Charte ” di Luigi Filippo abbassa le cifre a 200 franchi per l’eleggibilità attiva e a 500 per quella passiva.

Era una situazione liberale, non democratica. Nel 1831 c’erano in Francia solo 175.000 elettori. E quando si chiese qualcosa di ciò al dottrinario Guizot, egli rispose con una replica tipicamente liberale e borghese: ” Arricchitevi col risparmio e col lavoro, e diventerete elettori ” (12). Negli accadimenti politici che culminarono nella Carta di Luglio, vi é solo liberalismo, libertà come equilibrio di poteri, Montesquieu, esperienza inglese e predominio della ragione.

Ma sin dall’inizio Rousseau porge l’orecchio e, pochi anni più tardi, la democrazia inscritta nell’articolo 6 darà abbondanti raccolti politici. Già l’11 agosto 1792, il giorno dopo l’invasione delle Tuleries da parte delle masse popolari, la Convenzione nazionale convocata per decidere della sorte di Luigi XVI viene eletta chiamando al voto tutti i maschi con più di ventun anni; allo stesso modo, il postulato rousseauviano e democratico appare inscritto nella Costituzione della “Montagna” del 24 giugno 1793. Era l’alba democratica, passeggera sino alla fugacità, in cui per la prima volta il liberalismo perde terreno nel confronto con le turbe. Dopo questa tappa brevissima, la Costituzione dell’anno III vede un ritorno agli usi liberali, con un sistema che persiste nel 1814 e giunge all’apogeo nel 1830. Il Decreto del 5 marzo 1848 instaura definitivamente il suffragio universale in Francia: un principio poi rimasto costantemente in vigore, che nessuno combatterà frontalmente, sebbene venga corretto tramite lievi attenuazioni del genere di quelle citate nella legge del 13 maggio 1850 o nei procedimenti elettorali impiegati sotto il Secondo Impero per favorire l’elezione degli amici del Governo. Si può dire che in Francia, dal 5 marzo 1848, il principio democratico sostituisca quello liberale, in un percorso che sarà seguito da altri popoli europei.

Anche per l’Inghilterra – sebbene sia l’ispiratrice di Montesquieu e rappresenti il sistema liberale per eccellenza -, se si ripercorrono gli ultimi duecento anni della storia costituzionale inglese, si vedrà che, in definitiva, constano di una progressiva estensione del diritto di voto. Le riforme del 1832, 1867, 1884 e 1928, significano puramente e semplicemente tale trasformazione. Benché in teoria si continui a considerare il suffragio come non universale ma dipendente dalla tassa, il bassissimo livello stabilito per questa fa sì che la ” Representation of the People Act ” del 2 luglio 1928 consacri praticamente il suffragio universale.

Un suffragio che ha presupposto, dietro al trionfo della democrazia politica, la vittoria della democrazia economica. L’ondata crescente del laburismo, la sua ascesa al potere e i cambiamenti da vera rivoluzione incruenta che l’Inghilterra sta attraversando in questi ultimi anni, non significano altro che il trionfo totale della democrazia, anche nell’ambito dell’economia. Oggi si può dire, senza timore di errare, che l’Inghilterra – la terra classica della libertà politica – non é più uno Stato liberale (13) ma uno Stato democratico, nella doppia accezione che il vocabolo possiede. Le limitazioni all’operare individuale in campo economico che esistono in gran parte dell’Inghilterra d’oggi – trovando giustificazione solo in un ordine democratico – sono incompatibili con una concezione liberale.

Altrettanto si potrebbe asserire della Spagna. Eccetto il periodo transitorio seguente la rivoluzione del 1868, il XIX secolo spagnolo ha vissuto sotto il carattere liberale, non democratico. Le successive Costituzioni rifiutarono il predominio della volontà generale; cioè del suffragio universale, proscritto nel 1812, nel 1837, nel 1845 e nel 1876, senz’altra eccezione che quella breve del 1869. Ma, anche tra noi, all’iniziale tappa liberale segue quella democratica, d’accordo con le linee generali delle ideologie rivoluzionarie. Il dottrinarismo peculiare della Costituzione del 1876, viene sostituito dal principio della democrazia nella legge elettorale del 26 giugno del 1890, quando nel suo primo articolo viene decretato il suffragio attivo per tutti i maschi con più di venticinque anni. Anche nel 1931 la Costituzione repubblicana é democratica e non liberale: l’uguaglianza nel voto stabilita all’articolo 36, la proclamazione del suffragio universale, diretto e segreto nell’articolo 52 e le limitazioni alla proprietà, esprimono detta tendenza.

Il processo é sempre monotono fino alla sazietà: la libertà borghese perisce per mano del suffragio politico universale, e questo porta con sé in modo ineludibile l’egualitarismo socialista. Il predominio delle tendenze socialiste o dei socialismi democratici nella vita politica d’Occidente riflette questo cambiamento, in cui l’uguaglianza ha il primato sulla libertà e una volontà collettivistica rade al suolo le fragili barriere dei diritti individuali proclamati tanto pomposamente nel 1789. Che la volontà collettivistica sia maggioritaria o minoritaria, che si esprima in votazioni periodiche o metta mano alla spada di un dittatore, sono dettagli accessori rispetto al fatto fondamentale: la libertà astratta della Rivoluzione europea é morta divorata da sé stessa.

I Fueros, barriera e alveo

Contro l’Europa e per uscire dal processo della politica europea appena passato in rassegna, la Tradizione delle Spagne inalbera la bandiera della libertà; ma senza cadere nell’errore di basare la libertà sulla menzogna dell’uomo astratto inesistente, bensì fondandola sulle realtà concrete dell’uomo storico che perpetua una tradizione secolare. Per questo non proclama la Libertà, ma riconosce le libertà; per questo non lascia al rischio di un cervello il costruire castelli nell’aria di un’illusoria divagazione, ma si attiene a quanto creato dalla storia dei diversi popoli di Spagna e cerca di instaurare i Fueros come barriere protettrici della libera azione di ciascun uomo.

Nel pensiero ispanico i Fueros suppongono due cose: barriera e alveo. Barriera di difesa del cerchio d’azione che spetta ad ogni uomo a seconda del posto che occupa nella vita sociale, come padre di famiglia, come lavoratore, come membro di un municipio o di un territorio; e alveo nel quale fluisce la sua azione libera, incorniciata giuridicamente nei margini della sua posizione in seno alla vita collettiva. Di modo che i Fueros sono garanzia dell’uso e ostacolo all’abuso della libertà umana.

Nei Fueros e nella tematica dell’uomo concreto che serve loro da cemento, l’uomo storico succede all’uomo irreale dei liberalismi rivoluzionari. O per dirla con le profonde parole di Rafael Gambra: ” Il nostro tempo ha reagito al razionalismo come concezione universale. Con ciò siamo tornati a guardare a quanto l’Illuminismo aveva disfatto… La Storia é tornata ad apparirci come uno sviluppo sempre nuovo di possibilità occulte e impenetrabili, il cui mistero é quello della nostra stessa esistenza. Dopo aver patito i cambiamenti del regime storico, i nostri occhi sono più aperti che mai al problema storico ” (14). E la libertà storica sono i Fueros .

 

La monarchia federativa
Omnis communitas perfecta est proprium corpus politicum ” – Francisco Suàrez: De legibus , I, 6, 21.

La società, “corpus mysticum”

Quando lo Stato restò solo in mezzo all’arena politica – durante i secoli XVIII e XIX -, poté annientare l’individuo o divenire sua vittima nella catena di assolutismi e rivoluzioni che costituirono la parte più memorabile della storia delle società europee, e nostra stessa storia da quando cominciammo ad europeizzarci ai giorni di Filippo V. Mancava il ruolo moderatore delle società intermedie, proprio della Cristianità medievale e del diritto pubblico delle Spagne.

Ciascuna di quelle società intermedie serve per dare alla società generale maggiore la sua indole organica; possiedono vita particolare e indipendente nei rispettivi ambiti; abbracciano l’individuo da quando nasce fino a che muore; il potere supremo non le crea, bensì le riconosce. Alcune derivano direttamente dal diritto naturale, come la famiglia; altre sono risultato della storia, come i popoli. Talvolta possiedono vita pubblica, altre volte si limitano alla sfera del privato. A volte bastano a sé stesse, richiedendo solo tutela e coordinamento con quelle vicine, come la città; non mancano quelle che agiscono al pari dello Stato, ma con mire superiori e diritti maggiori, come avviene nel caso della Chiesa Cattolica. Ma nel loro insieme godono tutte – secondo le loro finalità – di esistenza rigogliosa ed indipendente, raggiungono i loro scopi e sono dotate di poteri che le mettono in condizione di realizzarli, poteri che – nel complesso – vengono chiamati autarchia (1).

In contrasto con la sociologia europea, che finisce con l’annientare tali società intermedie, sia sopprimendole – alla liberale -, che incorporandole allo Stato – come il totalitarismo -, la sociologia spagnola si distingue per l’importanza data alle entità ed alle istituzioni sociali. Non c’è né l’onnipotente arbitrio dello Stato che pesa su di esse, né l’immolazione sugli altari dell’isolato selvaggio dell’illusione rousseauviana: per la sociologia delle Spagne, intesa come asse della vita collettiva, le società intermedie servono da misura per l’azione dell’uomo concreto e, data la loro indipendenza rispetto allo Stato, sono fonte certa di equilibrio umano. Il totalitarismo riduce tutto allo Stato, assorbendo individuo e società; il liberalismo riduce tutto all’individuo, misconoscendo la società e preparando la fine dell’apparato statale; la Tradizione spagnola cerca, attraverso la società, l’armonia dell’individuo con lo Stato. Per il totalitarismo, lo Stato é fine in sé, individui e società restando dei mezzi; per il liberalismo, il fine é l’individuo, mentre lo Stato e la società sono meri disturbi alla sua libertà essenzialmente buona; per la Tradizione spagnola lo Stato regola l’indipendente attività sociale come servizio all’individuo, ma questi non é una meta in sé , bensì é posto al servizio di Dio.

Il rispetto con cui il nostro pensiero politico ha sempre guardato all’autarchia delle società intermedie appare chiaro quando si vede lo sgorgare tra noi, con quattrocento anni di anticipo rispetto al tanto strombazzato esempio inglese, la tesi che la conquista ha luogo per educare i popoli ad essere liberi. E’ in occasione delle rivolte che desolavano la Sardegna – in cui un partito raggruppato attorno alle potenti famiglie degli Oria e degli Arborea fomentava una rivolta permanente contro la corona aragonese -, che i re provano a sottometterla usando per mezzo secolo tutti i mezzi forniti dalla violenza o dalla lusinga; la preoccupazione passa ai brazos riuniti a Tortosa nel 1400, sino a far giungere al sovrano la seguente proposizione, che si trasforma in capitolo di corte nel ricevere il corrispondente ” plau ” (2) che riflette il sentire ispanico del governo libero, anteriore e superiore alle tanto tradite e riproposte formule europee (3): ” Ugualmente, signore, come é stato diverse volte visto, é risaputo che dal grande ed assoluto potere conferito ai Governatori di detto Regno di Sardegna, sono derivati molti inconvenienti, giacché per la loro potenza e la lontananza fisica dal loro signore, i detti Governatori volontariamente hanno perseguitato, afflitto e danneggiato molti abitanti di detto Regno e di altri [ad esso vicini o confinanti, sia privati che forestieri], finché in quel Regno ed in altre parti fu creato ed ora é opinione comune che la ribellione che ci sarà e che da lungo tempo in qua é stata e c’è nel detto Regno, prese fondamento e principio dalle soperchierie e dai volontari processi dei detti Governatori. Sia vostra mercede, o signore, provvedere e fare in modo che per sempre in futuro i detti Governatori abbiano da voi, signore, e dai vostri successori, sicuro e limitato potere “, chiedendo che tali governatori per cinque anni non potessero rimuovere incarichi e che per la copertura dei vacanti operassero ” tenendo conto del parere dei consiglieri di Cagliari per quella amministrazione e dei consiglieri di Alghero per l’amministrazione del Logudoro ” (4). Un simile riconoscimento della propria realtà libera e l’anelito che altri popoli godessero di uguali fortune, provano la perfezione di quella formula felice, per la quale la monarchia tradizionale era un insieme di repubbliche coronate da un re.

La prima delle comunità inferiori o intermedie tra l’individuo e il pot

ere politico é la famiglia, oggetto di ogni protezione in campo religioso, politico ed economico. Spettando la prima di queste tutele alla Chiesa, é un postulato del pensiero tradizionale il rinforzare l’autorità del padre, cementarla sulla perennità del legame matrimoniale e trasformarla in asse della rappresentanza politica. In ogni caso, é necessario che essa sia riconosciuta come qualcosa che é anteriore e superiore all’autorità politica stessa, ancorato direttamente nel terreno del diritto naturale. In campo economico vanno resi definitivamente stabili i patrimoni familiari, dichiarando la possibilità di ascrivere determinati beni a fini di continuità dell’istituto familiare. Tutti i poteri e facoltà di cui l’uomo in quanto tale é privo, gli sono attribuiti quando opera dirigendo e rappresentando una famiglia che ha ricevuto dagli antenati e dovrà consegnare ai discendenti. La società politica é un’associazione di famiglie, non un mucchio di uomini come crede il liberalismo, né una macchina con ingranaggi umani, quale la pensa il totalitarismo. Veicolo naturale dell’individuo, essa é la pietra angolare della comunità politica.

A fianco della famiglia stanno le entità territoriali minori e maggiori, con la loro varietà ricchissima, le loro istituzioni peculiari, le loro leggi, i loro costumi. I Fueros sono lo strumento legale per forgiare concretamente la realtà autarchica delle entità territoriali maggiori, degli stili di vita di ciascuno dei popoli di Spagna.

Il fatto che ciascuno dei popoli spagnoli possieda tratti caratteristici nelle leggi, usi, costumi ed amministrazione – alcuni persino una lingua e cultura molto insigni – non é un fattore di dispersione, bensì di realizzazione della più perfetta delle unità: l’unità nella diversità. Tutti i diversi popoli ispanici sono legati da due vincoli: la fede nello stesso Dio e la fedeltà allo stesso re. Al di sopra delle libertà dei fueros , simbolo delle loro distinte personalità, campeggia il doppio legame della monarchia federativa e missionaria. Dove i Fueros mettono la varietà, la missione trae il vigore dell’unità interiore della coscienze, e la regalità é il segno esteriore dell’unità interiore.

 

La regalita’

La regalità non é qualcosa di vano, come i liberalismi dottrinari, né qualcosa di onnipotente, come nelle costruzioni totalitarie o assolutiste. Il monarca regna e governa, ma all’interno di limiti imposti dalle leggi fondamentali o del paese. Non gli é possibile alterare a piacimento l’apparato legale dei suoi popoli, senza il consenso dei popoli stessi. Impera, certamente, perché é re; ma impera all’interno di leggi ben precise.

In questo terreno la monarchia tradizionale é l’unica forma di governo in cui il potere del governante viene davvero limitato, perché i cippi che delimitano le sue facoltà non consistono in fredde lettere o dottrine morte, ma nella feconda realtà sociale, anteriore e distinta dallo Stato. Nelle società intermedie e autarchiche, dove i totalitari e gli assolutisti vedono uno strumento in più per il potere, e dove i liberali vedono il vuoto dell’inesistente, la monarchia tradizionale trova il fren

o effettivo che gli altri sistemi politici ignorano. Per questo la monarchia tradizionale é l’unica forma di governo in cui gli uomini possono sentirsi veramente liberi.

Tuttavia, posto che della regalità sono attributo alcune funzioni attive, le funzioni del monarca divengono una qualcosa di essenziale. Da ciò la necessità di esigere due tipi di legittimità: quella di origine e quella di esercizio, la legittimità dei titoli al momento dell’assunzione del potere supremo e la legittimità nel suo uso al servizio degli ideali della Tradizione delle Spagne. Entrambe sono essenziali, ma in caso di dubbio é da preferirsi la legittimità d’esercizio su quella dinastica, perché altrimenti ammetteremmo che un prurito leguleio possa primeggiare sul contenuto della tradizione ispanica, conclusione assurda sotto tutti gli aspetti. Il giuramento dei Fueros era condizione necessaria per l’incoronazione dei sovrani, volendo significare con esso che la legittimità d’esercizio era più importante di quella d’origine e che, mancando quella, questa manca di fondamento.

 

Cambiamento di fronte

I temi affrontati nei precedenti capitoli sarebbero un’inutile commemorazione se da essi non si deducessero lezioni di esemplarità, sia relativamente a quel che fummo che a quel che avremmo potuto essere se la successiva europeizzazione non ci avesse macchiato. E’ possibile formulare un quadro della monarchia tradizionale delle Spagne basandosi per una metà sul passato e per

l’altra metà immaginando quel che la storia tragicamente non giunse ad essere. A questo é dedicato il presente capitolo.

E’ chiaro che la monarchia tradizionale che avremmo potuto avere, e che l’esotismo europeizzante ci ha troncato, nell’ambito istituzionale non ha molto in comune con nessuna delle forme di governo vigenti nel mondo. Anche l’attuale monarchia britannica é qualcosa di diverso, direi persino per molti aspetti contrario, dalla nostra vera concezione di regalità.

Chi avesse la pazienza di meditare su queste questioni dissotterrando il lascito vivo dei nostri morti, percepirebbe il fatto che la nostra monarchia ebbe ed avrebbe avuto una realtà sociale molto diversa da quelle che sistematicamente caratterizzano le attuali macchine di governo. Essa ebbe – per usare la felice espressione di Vicente Marrero (1) – un ” potere viscerale “. Per capire cosa fu e cosa sarebbe stato tale potere viscerale, é forzatamente necessario schiodare le tavole di luoghi comuni in cui si muovono i nostri trattatisti di diritto politico e persino rifare le mappe dell’amministrazione. Perché la monarchia tradizionale esistesse così come essa fu e sarebbe stata, il potere reale o supremo dovrebbe assumere un carattere molto diverso nei suoi principi, nelle sue limitazioni e nelle sue strutture.

Ed ecco quel che, senza archeologie calunniose, ma anche senza mimetismi europei, l’ordinamento centrale della monarchia tradizionale delle Spagne sarebbe stato se non si fosse tagliato il legame vivo delle nostre tradizioni politiche.

 

La Corona

L’asse della monarchia, inutile dirlo, risiede nella Corona. Al vertice della piramide istituzionale, la Corona costituisce il motore che dà attività agli ingranaggi di ciascuno dei rami dell’amministrazione statale o delle amministrazioni dei vari popoli spagnoli,

I caratteri di questa Corona sarebbero:

A) La cattolicità attiva, non espressa in verboserie di solenni dichiarazioni simili a ricette, bensì in autentico atteggiamento di raccolta degli aneliti missionari e a servizio efficace dell’unità cattolica dei nostri popoli, o per favorirla dove quell’unità fosse scomparsa. Dalla quale cattolicità deriverebbero tre doveri primari: l’assoggettare la politica generale ai postulati della morale cattolica, l’adottare una stretta fedeltà alla cattedra di Roma e il favorire in ogni occasione gli interessi spirituali della Cristianità.

B) La Corona – benché sia istituzionalmente una sola, come una sola é la persona del monarca -, consiste nell’accumulazione di diritti storici sempre discernibili perfettamente. Nella nostra monarchia secolare abbiamo sempre avuto quel che alla fin fine é un espediente recentissimo della tecnica costituzionale anglosassone: la possibilità che un re lo sia di regni diversi. La Corona presuppone sovranità in Castiglia, sovranità in Aragona, signorìa in Biscaglia, contado in Barcellona. Quando ciascuno di quei regni, principati, provincie e signorie, si incorporò alla Corona castigliana, riconoscendone la capitanerìa primogenita, non si suicidò mai – storicamente e socialmente – nell’olocausto di un’uniformità incompatibile coi fatti. Un biscaglino, per esempio, non si

rivolgeva all’unica Corona in quanto depositaria della sovranità aragonese o castigliana, bensì in quanto essa era il soggetto maggiore del diritto pubblico della sua signoria di Biscaglia; perché Biscaglia – e non Castiglia o Aragona – era il solo cammino per il quale poteva far parte della monarchia comune significata dalla Corona.

C) Il re eserciterebbe i suoi poteri di governo in ciascuno dei suoi domini secondo i diritti che gli spettano storicamente e costituzionalmente. Solo nelle funzioni inerenti il potere centrale i suoi poteri sarebbero uguali in tutti i luoghi.

D) A parte le limitazioni religiose e morali di indole generica e le barriere legali – che in ogni popolo assicurano la libertà in riferimento ai rispettivi Fueros -, il Governo dovrebbe regolarsi in base alle decisioni delle Cortes , giunte o assemblee forali che regolano la rappresentatività libera di ciascun capo famiglia nei diversi popoli spagnoli. Altre Cortes centrali rappresenterebbero l’insieme generale di tutte queste, avendo come compito l’esporre le linee guida per la politica e l’economia comuni.

E) Nella monarchia tradizionale non ci sarebbe la classica distinzione liberale tra il regnare ed il governare, che rende i re legalmente irresponsabili nella giurisprudenza ma sempre largamente responsabili davanti ai tribunali delle rivoluzioni. Il re assumerebbe direttamente il governo, aiutato da una serie di istituzioni centrali denominate complessivamente Consigli della Corona.

F) Le facoltà regali, in tono con le loro funzioni, si potrebbero classificare nel seguente modo:

I- Generali per tutta la monarchia.

A loro volta divise in:

1) Di politica interna ed estera, amministrazione ed economia.

2) Di amministrazione della giustizia in tutti i suoi rami.

3) Di comando delle forze armate.

4) Di politica sociale e miglioramento delle classi economicamente deboli.

5) Di educazione e insegnamento (2).

6) Di coordinamento

II – Particolari per ogni regno.

Ciascuna delle facoltà centrali si incarna in un organismo separato. Saranno di competenza delle Cortes generali solo quelle segnalate ai commi 1) e 6); le altre spettano alla Corona indipendentemente dalle Cortes , per mezzo dei suoi corrispondenti Consigli.

G) La Corona od i suoi agenti sarebbero soggetti a responsabilità quando il loro operare eccedesse i precetti legali. Il Supremo Tribunale di Giustizia potrebbe trasformarsi – in casi determinati da una legge speciale – in Corte di Giustizia Maggiore, sul modello dei precedenti aragonesi ampliati a tutti gli altri popoli ispanici come garanzia delle libertà forali, adeguandoli alle circostanze della vita moderna.

H) La successione alla Corona sarebbe ereditaria. Leggi speciali regolerebbero l’unità dei procedimenti per assicurare l’unità della monarchia nel riconoscimento della legittimità d’origine nel dettato di successione.

I) L’esercizio dei diritti, poteri e facoltà regali sarebbe assunto dal monarca solo dopo aver ottenuto la legittimità d’esercizio attraverso il giuramento dei vari Fueros dei popoli spagnoli.

Il Consiglio Reale

La Corona governerebbe con l’aiuto del Consiglio Reale, il più importante di tutti gli organismi e in certo qual modo prolungamento della Corona stessa. Si tratterebbe di un corpo ridotto, con cui componenti designati dal re tra le personalità più salienti della vita nazionale e dal cui seno uscirebbe la reggenza nel caso di vacanza del soglio o di assenza del sovrano. Avrebbe precedenza di onori nei confronti di tutti gli altri corpi dello Stato, anche del Consiglio dei Ministri; il suo parere sarebbe necessario negli affari di maggior importanza; gli si affiderebbero funzioni di investigazione politica e di direzione degli altri Consigli o alti organismi; costituirebbe la rappresentanza individuale o collettiva ed in situazioni eccezionali dovrebbe anche governare. I suoi membri sarebbero considerati come un’estensione del sovrano stesso e come riserva nazionale nei momenti di suprema difficoltà. E’ questo il motivo della cura nella selezione dei membri e l’alta considerazione che il Consiglio Reale presupporrebbe.

 

Il Consiglio dei Ministri

La politica e l’amministrazione generale sarebbero rette dalla Corona con l’aiuto del Consiglio dei Ministri, composto, in linee generali, da: a) il Presidente; b) il Ministro dello Stato, per le relazioni estere e gli affari ecclesiastici; c) Interni; d) Finanze; e) Bilancio; f) Opere Pubbliche; g) Agricoltura; h) Industria; i) Commercio; j) Comunicazioni, includendovi l’aviazione civile.

Il Consiglio dei Ministri svolgerebbe frequenti riunioni sotto la presidenza del monarca o di un membro del Consiglio Reale. Ogni ministro sarebbe responsabile davanti al re per i problemi a suo carico, accordando tuttavia le sue politiche nel rispetto delle direttrici segnate dalle Cortes nei limiti costituiti dalla Legge costitutiva di queste. Tuttavia i ministri non dovrebbero essere giudicati dalle Cortes che per detti casi obbligatori, relazionati per iscritto o personalmente a fini informativi, ma senza cadere nello sfiancante sistema parlamentare.

L’incarico di ministro sarebbe incompatibile con quello di deputato alle Cortes, dato che la funzione di governare é in fondo incompatibile con la rappresentanza popolare. Un ministro non potrebbe essere eletto deputato se non dopo un ampio periodo trascorso dalla cessazione dall’impegno in cariche di governo.

Lasciando il portafoglio – come per tutti gli altri funzionari pubblici -, ogni ministro verrebbe sottoposto a una “inchiesta di permanenza” davanti ad un tribunale dedicato ai ministri e costituito da un membro del Consiglio Reale e quattro o più magistrati del Tribunale Supremo, scelti a sorte. Detto processo durerebbe sei mesi, e in quel periodo egli non potrebbe allontanarsi dal paese né disporre dei suoi beni in modo da eludere il possibile risarcimento di danni e nocumenti causati nel tempo del suo incarico ufficiale.

 

Le Cortes generali

Le Cortes generali – composte da rappresentanti dei diversi corpi integranti la società, raggruppati per categorie economiche o politiche -, avrebbero parere consultivo e voto con effetto obbligatorio nelle questioni generali di carattere politico ed amministrativo, nei termini fissati dalla legge. Il criterio generale sarebbe quello della rappresentanza in esse di tutti gli spagnoli: una rappresentanza vera, ossia con riferimento all’effettivo peso nella vita collettiva; suffragio per tutti ma non con lo stesso valore per ciascuno, perché nelle Cortes gli uomini non si “contano”, ma si “pesano”.

Le elezioni sarebbero libere, regolate da una legge speciale, con garanzie non politiche ma giudiziali: non di competenza delle Cortes – forza politica troppo coinvolta per essere imparziale -, ma dei Tribunali di Giustizia. Organismi particolarmente adatti ad essere rappresentati nelle Cortes sarebbero le Confraternite agrarie, i Gruppi industriali, le Camere di commercio o di navigazione, le Comunità di pescatori e le Confraternite corporative delle varie classi, purché tali organismi nascano autarchicamente e senza il minimo intervento statale. La proporzione numerica di deputati che spetterebbe a ciascuno di tali organismi sarebbe fissata non in riferimento alla quantità di popolazione, ma sulla base del loro peso economico o sociale nella vita del paese.

La legge delle Cortes determinerebbe le questioni su cui queste devono esprimere parere e quelle per le quali la loro opinione sarebbe obbligante per il Consiglio dei Ministri. In ogni caso non potrebbero discutere nessuna legge né affare sino all’approvazione del bilancio annuale, la cui presentazione dovrebbe essere depositata dal ministro competente nella Giunta (3) delle Cortes, al più tardi il 15 di ottobre di ogni anno.

I deputati potrebbero ricevere delega a decidere dai loro rappresentati nelle materie che sarebbero stabilite ogni anno dal proclama reale occasionato dalla data di convocazione della prima riunione, e a questa delega si applicherebbe una “inchiesta di permanenza”; nelle altre, ovvero in quelle che si presentassero incidentalmente nel corso delle varie sessioni, opererebbero secondo le loro effettive competenze e conoscenze, cercando tuttavia di vegliare sempre sugli interessi dell’organismo che li manda alle Cortes.

I deputati diverrebbero tali solo quando l’atto delle loro elezione fosse stato convalidato dal Tribunale Penale corrispondente al vertice dell’organismo o entità da essi rappresentata; le Cortes si costituirebbero quando i due terzi dei certificati degli atti di convalida fossero stati depositati nella Deputazione Permanente. La Giunta definitiva sarebbe eletta dalle stesse Cortes scegliendo tra i suoi membri.

Le Cortes durerebbero cinque anni, svolgendo i propri lavori convocate dalla Corona. Si riunirebbero periodicamente a partire da ogni 15 ottobre per costituire la Giunta e discutere i bilanci, non essendo loro permesso di affrontare altre questioni sino alla definitiva approvazione dei medesimi.

Nel periodo di non riunione delle Cortes, sarebbe in funzione una Deputazione Permanente, con facoltà stabilite dalla legge, la cui missione sarebbe quelle di rappresentarle in quei tempi di chiusura.

Le spese dei deputati, i loro salari e trasferte, sarebbero stabiliti in piena libertà dagli organismi che rappresentano, essendo i primi obbligati a rendere sempre conto degli importi ricevuti a tale scopo.

 

Il Consiglio di Giustizia

Le funzioni regali nell’amministrazione della giustizia sarebbero indipendenti dalle funzioni di governo, non per il classico prurito di Montesquieu – violato apertamente nelle costituzioni liberali nel momento stesso in cui ammettono un Ministero di Giustizia -, ma per circondare la giustizia con le maggiori garanzie di imparzialità.

Come é logico, la scala giudiziaria sarebbe costituita da una serie gerarchica di giudici e tribunali, guidati dal Tribunale Supremo; ma per l’ordinamento giudiziario accanto al re esisterebbe un Consiglio di Giustizia, alle sue dirette dipendenze, presieduto dal Presidente del Tribunale Supremo ed integrato da cinque ministri, incaricati rispettivamente dell’ordinamento dei tribunali, del registro dei beni, della fede pubblica o notarile nei suoi diversi gradi, dell’organizzazione delle prigioni e dei tribunali a carattere eccezionale o speciale ( laborales , ecc.). Tale Consiglio opererebbe periodicamente e frequentemente sotto la presidenza del sovrano stesso o di un membro del Consiglio Reale. Dovrebbe rendere annualmente conto degli scostamenti dal suo bilancio, concessogli dalle Cortes gli concederanno e compreso in quello generale dello Stato dal ministro del Bilancio; ma in tutto il resto godrebbe di piena e totale indipendenza.

Al Consiglio di Giustizia o agli organismi ad esso subordinati, oltre alla stretta funzione di amministrare la giustizia, di legalizzare o punire, toccherebbero alcuni compiti politici, come la convalida degli atti dei deputati alle Cortes, i ricorsi per danni secondo il Fuero , i giudizi sulle “inchieste di permanenza” dei ministri ed altri analoghi. Ma é chiaro che in ogni caso il suo legame con gli altri organismi pubblici sarebbe radicato nella Corona attraverso il monarca od il Consiglio Reale, mantenendo sempre il carattere autonomo delle proprie istituzioni e la speciale peculiarità dei suoi incarichi.

 

Il Consiglio di Guerra

Nello stesso modo resterebbero separate dalle funzioni di governo politico le materie di carattere militare, regolate direttamente dal re per mezzo del suo Consiglio di Guerra, integrato dai comandanti delle truppe di terra, mare ed aria. Il Consiglio funzionerebbe in modo analogo a quello di Giustizia, riunendosi anch’esso periodicamente e frequentemente sotto la presidenza del sovrano o di qualche membro del Consiglio Reale.

I bilanci delle forze armate sarebbero inclusi in quelli generali dello Stato dal Ministro del Bilancio, e dell’uso dei fondi ricevuti si dovrebbe rendere conto alle Cortes; ma in tutto il resto il Consiglio di Guerra opererebbe in modo indipendente, senza ulteriori relazioni con gli altri organismi pubblici di quelle analogamente mantenute dal Consiglio di Giustizia.

 

Il Consiglio Sociale

Esisterebbe qualcosa di simile a quel che oggi si denomina previdenza sociale, ramo così importante della vita moderna. Nei ministeri che oggi si chiamano del Lavoro, degli Affari Sociali o di Previdenza, si é soliti confondere due funzioni perfettamente distinguibili, con pregiudizio per i diritti che spettano agli individui: la funzione amministrativa della sicurezza o assicurazione sociale e la funzione giurisdizionale delle contese sindacali. Passando la seconda al Consiglio di Giustizia, la prima sarebbe svolta dal Consiglio Sociale, propulsore della politica di protezione ai più deboli economicamente e al quale dovrebbero, pertanto, essere incorporati anche la direzione e l’ispettorato delle istituzioni di beneficenza, quali che siano. Anche questo Consiglio dipenderebbe direttamente dalla Corona, con dignità identica a quelli di Giustizia o Guerra, e si riunirebbe con le loro stesse regole.

Gli organismi con finalità simili esistenti in ogni regione o regno, sarebbero autonomi secondo le loro leggi costitutive; ma toccherebbe sempre al Consiglio Sociale il formulare i programmi generali di miglioramento dei livelli di vita, di protezione dei lavoratori, di assicurazione sociale e delle altre manifestazioni di una politica che porti al raggiungimento della fratellanza cristiana.

 

Il Consiglio della Cultura e la Giunta della Cultura

L’ultima e più delicata funzione di tutte quelle che competono alla Corona, sarebbe quella di orientare la vita intellettuale dell’insieme dei popoli spagnoli e di ognuno, punto in cui sarebbe necessario coordinare l’unità degli interessi generali con l’indispensabile e liberissima autonomia dell’aratura necessaria alla semina del sapere o della creazione artistica.

Un principio basilare a questo scopo sarebbe che il diritto ad insegnare spettasse a tutti coloro che possono farlo con competenza e rettitudine morale – senza rompere l’unità spirituale dei nostri popoli -, nelle condizioni richieste dalla legge. La fondazione di università o di centri di studio di ogni grado, sarebbe un libero diritto riconosciuto a tutti sotto la logica ispezione statale.

Lo Stato concederebbe una graduale autonomia culturale, amministrativa ed economica alle università; incorporerebbe ad esse le istituzioni di insegnamento medio, le scuole elementari e quelle di specializzazione; permetterebbe di formulare dei propri programmi di insegnamento; incanalerebbe in esse gli enti di ricerca di ogni genere, e ridurrebbe la stessa azione statale a semplice opera di controllo e approvazione.

Allo scopo di svolgere questo compito di controllo e approvazione esisterebbe un Ispettorato Centrale, dipendente dal Consiglio di Cultura. Il Consiglio dovrebbe essere composto da sei membri, incaricati della Presidenza, dell’insegnamento primario, dell’insegnamento superiore, della stampa, dei musei e delle biblioteche. Come i precedenti, si riunirebbe sotto la presidenza del sovrano o di un membro del Consiglio Reale. Essendo superiore agli analoghi organismi creati dai regni o dalle regioni, avrebbe come compito l’orientare, il coordinare e il controllare le attività degli studi, ricerca e insegnamento, assicurare l’autonomia universitaria e risolvere le contese amministrative. Per il suo bilancio si seguirebbe quanto detto per i Consigli di Giustizia, della Guerra e Sociale.

Detto Consiglio sarebbe responsabile davanti al re, ma nei limiti fissati dalla legge dovrebbe adattarsi alle decisioni di una Giunta di Cultura, composta da un centinaio di membri liberamente eletti da accademie, università, istituti di ricerca e centri culturali analoghi. Questa Giunta dovrebbe riunirsi almeno due volte all’anno per periodi non inferiori a quindici giorni, e sarebbe l’organo rappresentativo della vita intellettuale dei popoli spagnoli, la via per la quale gli uomini di studio verrebbero incorporati ai compiti generali senza cadere nel veleno di confondere la politica culturale con la politica generale quotidiana.

 

Annotazione finale

Nelle linee generali più sopra riassunte si colgono le caratteristiche della monarchia tradizionale: essa distingue le funzioni politiche e di amministrazione generale da quelle che richiedono un orientamento speciale per motivi di difesa delle libertà concrete (giustizia), del territorio (forze armate), della necessità di azione continua ad ampio respiro (previdenza sociale) o della non confusione dell’uomo di cultura col salariato dell’istruzione (cultura); provvede a separare la rappresentanza popolare dall’atto di governare, anche se la voce di quella pesa in modo decisivo su questo; cerca di estirpare la politica come fine a se stessa, senza assoggettarla alla tecnica, ma anche senza farla dominare su di essa; guarda alla difesa dei postulati fondamentali della fede e della lealtà verso la Corona, senza pregiudizio per le feconde libertà forali.

Uno studio sereno di quel che furono i vecchi ordinamenti liberi dei nostri popoli e di quel che probabilmente sarebbero diventati senza l’intervento delle deviazioni europeizzanti, mi fa pensare che questo sarebbe stato il quadro odierno, a grandi linee, della monarchia tradizionale.

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