DI ALDO MOLA
Qualunque decisione sulla partecipazione diretta o indiretta dell’Italia al conflitto in corso in Libia (a cominciare dalla disponibilità delle basi per bombardamenti) va deliberata dal Parlamento con voto palese, in modo che ognuno sappia e poi ricordi chi, come e perché volle quel che potrebbe derivarne. Altrimenti a che cosa serve il Parlamento? A che cosa si riducono la sovranità nazionale e la “politica”? Poche parole per chiarezza: senza allarmismi ma con senso di responsabilità e l’occhio al passato. Agosto 1914. La guerra dell’impero austro-ungarico alla Serbia, per reprimere il terrorismo politico e il suo retroterra, colpevole dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, in pochi giorni innescò la conflagrazione europea. Dilatata nel 1917 a prima guerra mondiale, essa finì con circa quindici milioni di morti. Agosto 1939. L’aggressione della Polonia da parte della Germania di Hitler, con la connivenza dell’URSS di Stalin, al quale si accodarono i comunisti di tutto il mondo (italiani inclusi), fu il detonatore del conflitto europeo che nel dicembre 1941 divenne la seconda guerra mondiale. Cinquanta milioni di morti. Il governo italiano intervenne entrambe le volte legandosi mani e piedi con accordi (l’adesione alla Triplice Intesa il 25 aprile 1915; il “Patto d’acciaio” italo-germanico il 22 maggio 1939), che cacciarono il Paese nella grande fornace senza prevedere né immaginare come e quando ne sarebbe uscito. Tutt’e due le volte il governo agì senza adeguata preparazione e nella stolida speranza che presto sarebbe finito tutto. Gli italiani la pagarono carissima: in trent’anni oltre un milione e centomila militari morti, due milioni di mutilati, l’Italia invasa, bombardata, messa a fuoco da una feroce guerra civile, arretramento dei confini, perdita delle colonie e drastica riduzione della sua sovranità. A decidere fu solo e sempre il governo (Salandra nel 1914, Mussolini nel 1940). Nel 1914 la quasi generalità del Paese era contraria alla guerra. Ma il più autorevole fautore della trattativa diplomatica, Giovanni Giolitti, venne cacciato da Roma sotto minaccia di morte. Nel 1940 Mussolini aveva da tempo chiuso la bocca alle opposizioni. Entrambe le volte la “piazza”, ignara e cieca ma debitamente manipolata, plaudì. Il Paese, sbigottito, subì.
Oggi chi è in grado di dire con esattezza “chi” sia l’Isis, chi l’abbia armato e continui a foraggiarlo, chi lo finanzi e quali siano le prospettive del conflitto in corso non solo nei tanti scenari ma anzitutto in Libia? Da molti mesi il governo fa dichiarazioni contraddittorie e sconclusionate (cioè senza conclusioni, né previsioni) su entità, mezzi e scopi della partecipazione dell’Italia al conflitto per annientarlo. Da qualche settimana viene ripetuto (solo per scaramanzia?) che nessuno è al sicuro dal “terrorismo”. Ma il “terrorismo” è solo l’aspetto più vistoso di un conflitto asimmetrico, alimentato da motivazioni politiche, militari e religiose. Con buona pace di quanti vogliono minimizzarle, papa e alcuni preti compresi, queste ultime sono incombenti e determinanti. Del resto in Europa le guerre tra cattolici, evangelici e riformati, ferocissime e spesso di sterminio, sostarono solo quando venne affermato il principio “cuius regio, ejus et religio” (i sudditi praticano il culto del re o se ne vanno) e poi col prevalere della separazione delle chiese dallo Stato. Nel Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda, che molti retori celebrano quale culla delle libertà, i cattolici furono per secoli cittadini di serie B. Un saggio della compenetrazione tra politica e religione è offerto dalle vicende dell’Etiopia: cent’anni orsono il “legg” Iyasu, nipote di Menelik, filoturco si accostò all’islamismo: quel corto circuito politico-religioso fu interrotto con l’eliminazione di Iyasu a vantaggio di Zauditù, altra figlia di Menelik e madre di ras Tafari, futuro negus, cristiana ortodossa monofisita, come l’imperatrice bizantina Teodora, moglie di Giustiniano…: storie lunghe e complesse, sempre ammonitrici.
Ora gli italiani hanno diritto di sapere in quale conflitto entrano coinvolgendo il territorio nazionale (basi, navi, aerei…) nella lotta ad alcuni spezzoni del caleidoscopico terrorismo politico-religioso sommariamente denominato Isis. Hanno diritto di sapere chi sia esattamente il “nemico”, come combatterlo, con quali possibili ripercussioni. La Grande Guerra durò cinque anni, la seconda guerra mondiale ne durò sei e si chiuse con il lancio delle bombe atomiche sul Giappone. Come finirà questa, in Loibia in coso da ormai un lustro?
La conduzione della guerra compete al governo. Ma a chi spetta approvarla e dichiararla? Sulla base di quali Atti? Una risoluzione votata a maggioranza dall’ONU nel 2015 ma nella cui attuazione molti Stati, a cominciare dalla Russia, non si riconoscono? La Spagna, per esempio, ancora una volta è spettatrice accorta. Il governo italiano, invece, vuol essere in prima linea. Sulla base di quale esplicito consenso del Paese e di atti formali? La guerra non va in vacanza. Perciò le Camere vanno tenute aperte.