Oltre i confini nazionali – Il modello ligure – Piemontese – Nizzardo

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di Aldo A. Mola

Se non fosse, come ancora è, poco più che un’accozzaglia di Stati “separati in casa”, l’Unione Europea avrebbe facilitato e promuoverebbe l’avvento delle regioni transnazionali, cioè di quelle vaste plaghe che in un modo o nell’altro sono state ricorrentemente teatro di conflitti e che nei secoli hanno sottratto allo sviluppo civile immense risorse, immobilizzate in costosissime quanto infine inutili opere belliche. L’Europa va rifondata: non sul calcolo e ricalcolo dei bilanci (magari  un po’ truccati) dei suoi membri, sulla base della storia precedente degli Stati sorti nell’Otto-Novecento  con le rughe precoci del nazionalismo e sotto tutela di potentati remoti. L’Unione avrebbe senso se davvero si abolissero i vecchi confini, ormai morti e sepolti, e si varasse la federazione dei popoli. Il movimento federalista nacque per andare oltre la catastrofe della seconda guerra mondiale e delle persecuzioni razziali e a metà degli Anni Sessanta vaticinò regioni sperimentali, come, per esempio, quelle “alpine” e la Regione delle Alpi Marittime, con la fusione di Cuneese, Ponente Ligure e antica Contea di Nizza.

Nell’immediato dopoguerra, tra i segni della riscossa e della voglia di ricominciare vi fu anche il ritorno delle gare sportive. Ma avvenne con la testa volta al passato: il Giro d’Italia, il Tour de France, la Vuelta in Spagna…, e alcune all’interno dei singoli Paesi, come la Parigi-Roubaix. Risorse anche la Milano-San Remo, classicissima gara ciclistica ideata nel primo Novecento: 293 chilometri dalla Lombardia al Ponente Ligure. La Milano-San Remo era e rimane l’annuncio della primavera, la calamita che attraeva e ancora richiama dalle nebbie al mare. E’ anche una sintesi della storia d’Italia, dalle epoche più remote. Il longobardo re Rotari emanò il suo celebre “editto” (codice penale) dopo aver sottratto ai bizantini la costa dal Nizzardo alla Lunigiana. Solo chi ha Genova può egemonizzare l’Italia centro-settentrionale. Milano non basta. Dal canto suo, senza l’intreccio con le Alpi Marittime e la piana transappenninica, senza il Piemonte da un canto e Nizza dall’altro, la Liguria è una costa scabrosa. Lo ebbe chiaro Augusto quando fissò i confini delle due Regioni: Liguria e Transpadania. Nel Cinque-Seicento, al culmine del loro potere sull’Italia gli Asburgo, che dominavano l’Europa dall’Ungheria alla Spagna e un impero coloniale sul quale non tramontava mai il sole, per Genova passarono solo grazie ad Andrea Doria. L’argento che arrivava dall’America vi faceva tappa, per transitare poi a Piacenza e salire verso Milano e la caleidoscopica Europa centro-settentrionale. Come il burro, che sempre un poco rimane sulle mani per le quali passa, così anche quel flusso di preziosi arricchì le terre di transito e insegnò la direzione di marcia.

A suo modo lo ribadì appunto la Milano-San Remo. Con buona pace di Alessandro Manzoni, per il quale il cielo di Lombardia è così bello quando è bello, quello della Liguria lo è tutto l’anno: un prodigio per chi lo scopra arrivandovi dall’uggiosa valle padana. D’improvviso, forato il Turchino, esplode l’azzurro, intenso, accecante, con il sole riflesso dal mare. Vegetazione, rupi, profumi e soprattutto i colori. I colori conciliano la popolazione con l’habitat, sono alla radice della geoarchitettura. Lo insegnarono “Picatrix” e il “Corpus Hermeticum”, classici del Rinascimento italiano, umanistico e crudele. Vi si abbeverarono Cesare Borgia e, secoli dopo, Lopez Rega, “lo stregone”, autore della “Astrologia esoterica” (1962), alla ricerca della sintesi tra alfabeto, suoni, cromatismo, forme corporee e magia astrale. “In principio era la Luce…”.

Dopo la feroce seconda guerra mondiale la corsa ciclistica Milano-San Remo annualmente ridestava dal letargo moltitudini di giovani e meno giovani che sentivano invincibile il richiamo della mimosa. Prima che l’autostrada da Ceva a Savona (a una sola carreggiata e dal percorso pericolosissimo) agevolasse il transito, per assistere al passaggio dei corridori chi prenotava camere d’albergo affacciate sul loro tracciato, chi sin dal giorno prima arrancava in auto o in motocicletta per i colli più impervi. Nelle prime ore della mattina del giorno fatidico si muoveva infine la torma dei ciclisti. Ragazzi che da poco avevano appreso a pedalare partivano dal Piemonte per rendere omaggio ai campioni del ciclismo. Su biciclette spesso pesantissime, con la borraccia dell’acqua appesa alla meglio e scorta di pane per quando calavano gli zuccheri, intraprendevano la loro sfida: contro l’inverno, contro la sorte che li faceva vivere nel grigio anziché nell’azzurro, contro i genitori che disapprovavano, ma sotto sotto invidiavano quella mattana. Era durissima. Come tutte le prove della vita. Una versione ammodernata dei lupercalia: un rito di iniziazione, parte da narrare, parte da tenere segreto, come tutti gli intrecci di speranze e di sogni. Per molti subalpini e transpadani la Milano-San Remo fu stimolo alla scelta di abitare il Ponente Ligure, il balzo verso la “seconda casa”.

Ma come nacque l’aggancio tra le due città? Milano, sappiamo, più e prima che “capitale economica” fu capitale politica dai tempi di Costantino e religiosa da quelli di Sant’Ambrogio. Vale anche per Milano l’antica regola: il commercio segue la bandiera o, come ripeteva Napoleone il Grande, l’ “intendenza seguirà”.  Ma perché San Remo? La risposta è nell’impresa realizzata da una pattuglia di uomini politici che si armarono di una filosofia della storia e fecero della città di San Siro la “capitale dell’armonia”. Lo documenta il sontuoso volume “Uno, cento, mille Casinò di San Remo, 1905-2015” (ed. De Ferrari) curato da Marzia Taruffi per ricordare i 110 anni dall’inaugurazione del Kursaal, progettato e realizzato tra il dicembre  1913 e il 14 gennaio 1915 dall’architetto francese Eugène Ferret. Il Ponente Ligure era rimasto vittima sia dell’unificazione nazionale, che distrasse ingenti risorse per dotare l’Italia centro-meridionale delle infrastrutture indispensabili (strade, ferrovie, porti…) e di edifici pubblici, sia dell’irrigidimento dei confini, soprattutto dopo il crollo di Napoleone III e l’avvento della Terza Repubblica, poco amata dall’Italia sabauda e sospetta agli occhi della Chiesa di Pio IX. Solo nel 1892 papa Leone XIII spiegò che la chiesa non fa questione di forma dello Stato ma di sostanza della legislazione: un grosso favore reso proprio alla Francia repubblicana, contro l’Italia dei governi massonici (Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli…) e della regale coppia Umberto I-Margherita di Savoia, sorretta dal “fratello” Giosue Carducci [aggiungerei le virgolette perché qualcuno non pensi che fossero parenti…].

Sul trono dopo l’assassinio del padre, Vittorio Emanuele III voltò pagina. Senza cancellare l’alleanza difensiva con Vienna e Berlino, riallacciò i rapporti con “Marianne”. Conferì l’Ordine della Santissima Annunziata al presidente della repubblica francese, l’anticlericale Emile Loubet. Gli rese visita a Parigi e  ne  fu ricambiato nel 1904, il 21 aprile, natale di Roma. Il Ponente ligure divenne il teatro della nuova storia. Tra i suoi più convinti fautori vi furono i socialisti riformisti al governo di San Remo: il sindaco Augusto Mombello e l’assessore all’istruzione Orazio Raimondo (1875-1920), penalista di fama, poi sindaco, deputato dal 1913 alla morte. Nipote dell’onnipotente Giuseppe Biancheri, di Ventimiglia,  parlamentare, ministro, diciotto volte presidente della Camera, stratega delle infrastrutture dell’Italia  nord-occidentale, Raimondo aveva un suo retroterra occulto, documentato da Luca Fucini in studi pionieristici: la Loggia massonica “Giuseppe Mazzini”, comprendente l’avanguardia politico-culturale-sociale collegata alla “Persistenti” di Ventimiglia, alla “Giuseppe  Garibaldi” di Porto Maurizio e alle influentissime logge del Nizzardo. Tra i suoi sodali, spiccavano il pastore valdese Ugo Janni, Adolfo Crémieux e Mario Calvino, il geniale pioniere della floricoltura, che è una filosofia dei colori molto prima di tradursi in attività imprenditoriale di vasto e durevole successo.

Fu quella dirigenza civica e culturale a volere il Casinò. Per quei socialisti il progresso non nasce dal pauperismo, dalla distruzione delle macchine, dalla lotta contro il capitale ma dalla  modernizzazione umanistica. Il Casinò, dunque, non nacque “per caso”. Fu il frutto di una grande scommessa: puntare sul turismo di qualità. D’altronde, se la Regina Madre, Margherita di Savoia, risiedeva a Bordighera e vi veniva visitato da Vittorio Emanuele III, che non mancò di far  tappa a San Remo, da tempo la città prediletta da Alfredo Nobel era residenza di inglesi, russi, svizzeri…, un microcosmo che negli anni della Belle Epoque vedeva l’Europa lanciata verso sempre nuove conquiste nei settori più disparati delle scienze, della produzione, delle arti.

Ferret (ricordano nel volume Paolo Portoghesi, fondatore della geoarchitettura e accademico dei Lincei, e Federica Flore, storico dell’arte) aveva alle spalle la realizzazione di importanti edifici a Saigon (all’epoca capitale della Cocincina, poi Vietnam).

Altrettanto fece in Piemonte Giuseppe Saracco, nativo di Bistagno, che puntò sulle Terme di Acqui come volano turistico, culturale, economico della sua città e dell’intero Piemonte meridionale collegato alla Liguria dalla linea ferrata da lui tenacemente voluta.

La scommessa di Raimondo e dei suoi compagni fece i conti ripetutamente con i tornanti della storia. Nella primavera del 1915 il gioco d’azzardo (niente affatto gradito da Giovanni Giolitti e del resto mai formalmente autorizzato) fu severamente proibito. Il Kursaal chiuse battenti. L’intervento dell’Italia nella Grande Guerra era imminente e risultava sempre più difficile controllare non tanto il traffico di danaro quanto il via vai di informatori e di spie. Nel dopoguerra vi fu altro di più urgente e (come ricorda  Riccardo Mandelli in “Al Casinò con Mussolini”, ed. Lindau) anche il  Duce dovette rinviare dal 1922 al 1927 l’autorizzazione formale del gioco d’azzardo, a beneficio, appunto, del Casino di San Remo. Dal suo balcone il 12 novembre 1923 Vittorio Emanuele III s’era affacciato a salutare la folla, dopo lo scoprimento del monumento ai caduti e in partenza per Bordighera ove era atteso dalla Regina Madre.

Negli anni seguenti il Casinò divenne centro della vita culturale nazionale, con Luigi Pirandello, Marta Abba, Francesco Pastonchi, Pietro Mascagni: a conferma che quelli non furono solo “anni bui” (come ripete lo stanco ritornello sul “regime”). Da lì San Remo ripartì, dopo la chiusura imposta dall’intervento italiano nella seconda guerra mondiale: nuovamente con la promozione di eventi artistici, musicali, scientifici, che – documenta Marzia Taruffi – hanno fatto della“Cittàdeifiori” il punto di riferimento stabile della vita non solo mondana ma culturale italiana ed europea. Le duecento e più opere d’arte conservate nell’edificio (sculture, a cominciare dalla intrigante e un poco satanica “Cica Cica” di Odoardo Tabacchi, dipinti, arredi…, illustrati nel volume da Federica Flore) aggiungono fascino al Casinò, più volte rimodellato e felicemente incastonato nel paesaggio, fronte al mare, a due passi dal cuore della città e dalla Chiesa Russa di Cristo Salvatore: un “patrimonio di tutti” a giudizio del suo presidente, Gian Carlo Ghinamo, perché “capitale dell’armonia”. Anche quest’anno la Milano-San Remo darà la sveglia: dopo le severe prove del Turchino, di Capo Berta, di Cipressa e l’ultimo strappo sul Poggio, i corridori taglieranno il traguardo in corso Roma, come nelle edizioni classiche: un nome emblematico ed evocativo, un passato che è garanzia di futuro

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