Rito annuale in onore dei caduti italiani in Africa

RITO ANNUALE IN ONORE DEI CADUTI ITALIANI IN AFRICA
(testo del discorso tenuto da Alessandro Scafi all’Oasi Tabor di Santa Marinella, il 17 maggio 2015)

25 aprile 1900. 86° 33′ 49″ latitudine nord, la massima latitudine nord mai raggiunta, molto vicina ai 90°, molto vicina al Polo. La spedizione è stata organizzata da un principe di 27 anni: Amedeo Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi. Lasciamo la parola al poeta, a Giovanni Pascoli:
Va, principe giovane e giovane Italia! Nel pelago eterno, va, cerca il tuo Polo; va, trova nel mondo infinito il tuo perno! Va, in mezzo alla grigia bufera, va, dove s’incontra e s’indora con questa che sembra una sera la subita aurora!
Giovanni Pascoli esprime l’emozione che tutti provano in Italia. Gli Europei fanno a gara a cercare le sorgenti dei fiumi, a scalare le vette inviolate, a esplorare le terre sconosciute, e ora sono Italiani quelli che hanno raggiunto il Polo Nord! Amedeo Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, preferisce alla vita di corte una vita di avventure: solcare i mari, scalare le vette, sospingersi tra i ghiacci polari. Amedeo ha fatto l’Accademia Navale insieme al figlio di Garibaldi; a diciott’anni ha navigato intorno al mondo sulla Vespucci; ora, a ventisette, la sua spedizione raggiunge un
nord che nessuno aveva mai toccato. Perché parliamo di lui? Perché lo facciamo qui, oggi, a Santa Marinella? Esploratore, scalatore di montagne, ammiraglio, il Duca degli Abruzzi ha fatto il giro del mondo, ha scalato le vette più alte in Alaska, in Africa, ha combattuto i Turchi in Libia, ha comandato la flotta alleata durante la Prima Guerra Mondiale: allora perché parliamo di lui, qui, oggi, a Santa Marinella?
A vent’anni, nel settembre 1893, Amedeo Luigi era ufficiale in seconda alla cannoniera Volturno. La nave era stata mandata in Somalia, dove rimase attraccata al porto di Mogadiscio per un mese. Quel mese è bastato perché il giovane principe si innamorasse di quella terra; a quella terra ha dedicato gli ultimi anni della sua vita; quella terra è diventata la sua casa; sotto quella terra il Duca degli Abruzzi ha chiesto di farsi seppellire, scrivendo: “Preferisco che intorno alla mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati…”. L’amore per quella terra, la sua opera in Somalia, sono il motivo per il quale qui, oggi, a Santa Marinella, noi ricordiamo Amedeo Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi. Qui, ogni anno, a Santa Marinella, celebriamo questo Rito: una Messa in suffragio di tutti i Caduti italiani in Africa. La dedica del Rito è incisa in latino sul manto di bronzo di questa campana: Eis qui Africam tamquam Patriam dilexerunt, ‘a coloro
che l’Africa hanno amato come la patria’. Dedichiamo cioè questo Rito a chi ha amato la patria italiana dedicandosi all’Africa. Il Rito è celebrato a cura della Sezione Romana dell’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa, presieduta da Gianni Rizzi, genero della Medaglia d’Oro Angelo Bastiani, il leggendario comandante di Bande Irregolari in Africa Orientale. Molti di voi sono venuti qui grazie allo sforzo organizzativo di Mariza Patané, figlia di Pietro Lorenzo Patané, il militare che dopo la Seconda Guerra Mondiale è ritornato sulle ambe africane per recuperare i resti dei nostri Caduti e dar loro una degna sepoltura. Tra gli organizzatori c’è poi la famiglia di Leonida Fazi, il giornalista, scrittore, e oratore che ha sempre proclamato la verità di un’epopea africana che aveva vissuto sulla sua pelle e che l’ha celebrata da grande poeta della storia. Qui c’è Anna Fazi, testimone e partecipe della sua passione. Salutiamo il Presidente dell’Associazione Nazionale
Reduci e Rimpatriati d’Africa, Franco de Molinari, e Giovanni Chiavellati, figlio di Luigi Chiavellati, un altro eroe d’Africa che ha fatto onore all’Italia. Questo Rito viene celebrato ogni anno dal 1973 e dal 1991 qui, sul sagrato del Santuario di Santa Maria della Visitazione. Con il rito si chiude lo spazio, il tempo si ferma, si apre sulla parete profana una finestra sul sacro. Tra i pini mediterranei, affiorano paesaggi africani; tra gli alberi, i labari, e i pavoni; tra il mare e l’altare; qui, in abito civile, in abito talare, in uniforme: qui evochiamo nel sole meridiano d’Italia il sole del mezzogiorno africano, persone passate, passioni provate, vicende vissute. Qui, ogni anno, tentiamo di resuscitare una verità storica rimasta sepolta, una gloria nazionale che è stata sommersa dall’ignoranza, dal tradimento e dall’oblio. Qui ogni anno rendiamo onore al retaggio della nostra epopea africana, e ogni anno evochiamo un ricordo particolare legato alla storia dell’Italia in Africa. Quest’anno ricordiamo Luigi di Savoia, il Duca degli Abruzzi, e la Somalia italiana. Quanti telegiornali documentano per noi il dramma mediterraneo dei profughi:
assiepati sui barconi, scaricati dagli scafisti sulle nostre coste, quando non sono inghiottiti dal mare. Fuggono in centinaia di migliaia dalle lotte armate africane e uno dei paesi da cui fuggono i migranti è proprio la Somalia. La Somalia è oggi un paese diviso; in preda alla siccità, al terrorismo, alla pirateria; una delle nazioni più povere dell’Africa. La Somalia ha combattuto due guerre
sanguinose con l’Etiopia; è stata per anni straziata da una lunga guerra civile, dove tutti hanno combattuto contro tutti: tribù nemiche, i “Signori della guerra”, le cosiddette Corti islamiche, le milizie degli Al Shabaab, gli alleati di Al Quaeda. Ci sono stati centinaia di migliaia di morti, un milione di profughi, mentre chi resta, chi sopravvive è ridotto alla fame e alla miseria. A sostegno del governo di Mogadiscio, un governo che non governa il suo territorio, è intervenuta più volta la comunità internazionale: l’ONU, l’Unione Europea, le Nazioni Unite, l’Organizzazione dell’Unità Africana; la NATO, che addestra i soldati dell’esercito somalo, gli Americani, che bombardano gli Islamisti. La diplomazia italiana, con quella europea, si sforza di promuovere il benessere, la riconciliazione in una Somalia insanguinata da guerre, attentati e divisioni tribali, per garantire un nuovo ordine politico, la ricostruzione economica, e una stabilizzazione sociale. L’Italia è in primo piano in questo processo: gli Italiani addestrano le forze armate somale; offrono un sostegno finanziario; si adoperano per assicurare acqua potabile, salute, educazione.
C’era una volta una Somalia civile, una Somalia prospera. È un lontano ricordo nel Libro della Storia. C’era una volta un’Italia diversa, e c’era una volta la Somalia italiana. Oggi la vicenda dell’opera compiuta ieri in Africa dall’Italia sembra quasi una favola. Le cose che hanno fatto gli Italiani in Africa, in Somalia, sembrano quasi invenzioni, sembrano leggende, ma raccontiamola pure questa favola. Raccontiamo la favola di Amedeo Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi; la favola del villaggio da lui creato a 90 chilometri a nord di Mogadiscio: il “Villaggio Duca degli
Abruzzi”, oggi una cittadina che si chiama Giohar. Negli anni Ottanta dell’Ottocento il Regno d’Italia aveva cominciato a penetrare nell’area somala, fino alla creazione, nel 1892, di una vera e propria colonia, la Somalia italiana. Ora siamo nel 1920. Il Duca degli Abruzzi ha l’appoggio del governo per un’impresa in Somalia: studia il terreno, i problemi agricoli, le potenzialità per l’allevamento; cerca di capire quale commercio, quale industria, quale coltura sviluppare, e sceglie la zona di un fiume: il “fiume dei leopardi”, Uebi Scebeli. Prende poi contatto con i capi tribù locali, stringe gli accordi e torna in Italia. A Milano costituisce la Società Agricola Italo-Somala, SAIS, con un capitale sottoscritto da grandi istituti di credito e imprenditori privati. Arruola tecnici, assistenti, operai specializzati e torna in Somalia per acquistare dalle collettività tribali terre incolte e cespugliose che non usa nessuno. Poi affronta il suo nemico: la boscaglia, che sradica per oltre 8000 ettari; livella il terreno; apre canali; sceglie un’ansa del fiume, e lì stabilisce il Villaggio Duca degli Abruzzi. All’inizio si tratta di una ventina di baracche, con un ambulatorio, un piccolo ospedale, una direzione
agraria. Vengono presto costruite le vie di comunicazione con Mogadiscio, poi opere idrauliche, di dissodamento, di messa a coltura. Nel 1923 viene innalzata una diga sullo Scebeli, con un’elaborata rete di canali. In pochi anni il nucleo originario del Villaggio si trasforma in un vastissimo comprensorio. Nel 1934 il Villaggio si è esteso per 30.000 ettari. Viene chiamato Villabruzzi. È formato da 16 villaggi e abitato da più di 2.000 famiglie somale. Ci sono pozzi, moschee, scuole; strutture sanitarie; una chiesa, un albergo, un cinema; un laboratorio di chimica; una centrale elettrica. Ci sono stalle, magazzini, fornaci; un silos, un mulino, un’officina meccanica; un distillatore, un oleificio, anche attrezzature anti-incendio. Intanto, nel 1929, dalla SAIS era nata la Società Saccarifera Somala. A Villabruzzi uno zuccherificio trasforma la canna da zucchero; oltre il cotone e la canna da zucchero, si coltivano sesamo, ricino, arachide; granoturco, cocco, banane; fagioli, lenticchie, ceci.
Negli stabilimenti si produce cemento, si sgrana, si pressa il cotone, si lavorano le arachidi. La Società Agricola Italo-Somala ha risolto tanti problemi di organizzazione, di produzione, di coltivazione; ha introdotto l’industria saccarifera, adottato mezzi meccanici, esteso le coltivazioni. Ma non è stata bonificata soltanto la terra: la SAIS ha bonificato anche la boscaglia umana delle difficoltà sociali, dei problemi civili. Sull’esempio dei lavoratori italiani, la Società ha formato operai specializzati somali e Villabruzzi si è dimostrato un modello di civilizzazione. Al posto di un’arida
boscaglia riarsa, è sorto un vasto piano coltivato, attraversato da canali, strade, ferrovie, linee telefoniche. Il territorio della bonifica è suddiviso in aziende, con personale italiano e somalo, centri abitati, poderi irrigati, costruzioni civili. Sul modello di Villabruzzi si sviluppavano altre imprese: per esempio, il consorzio agricolo di Afgoi; o l’espansione della grande bonifica di Genale, avviata nel 1912 da
Romolo Onor, lungo il basso corso dello Uebi Scebeli, 140 chilometri a sud di Mogadiscio. Non importava che il terreno fosse arido, pieno di parassiti: Romolo Onor aveva realizzato un’azienda agraria sperimentale, ripresa nel 1924 dal Governatore della colonia De Vecchi. È evidente che c’è qualcosa che distingue l’opera italiana in Africa rispetto al colonialismo di rapina praticato dalle altre nazioni europee. L’Italia in Africa non è stata colonialista. L’Italia in Africa è stata colonizzatrice.
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Tre fasi storiche hanno caratterizzato il colonialismo europeo in Africa. La prima fase è stata quella degli esploratori, dei pionieri, dei missionari; la seconda fase è stata quella della conquista armata, del dominio, dello sfruttamento, infine la terza fase ha visto l’organizzazione civile, politica, sociale delle colonie, con la diffusione presso i popoli assoggettati di tutti i benefici della civiltà occidentale. Nella storia della colonizzazione inglese, francese, belga in Africa (di varia durata, ma in tutti e tre i casi molto lunga), la fase preminente è stata la seconda, quella dell’asservimento, del dominio, dello sfruttamento delle risorse, a beneficio esclusivo del conquistatore. Questa fase è durata più di un secolo, e ha lasciato un segno nel risentimento dei popoli. Per l’Italia le tre fasi storiche del colonialismo europeo si sono sovrapposte in tempi rapidissimi, fuse in una sola, perché in pochissimo tempo si è passati dall’esplorazione alla conquista e a una politica di assimilazione: l’Italia in Africa ha quasi subito avviato la fase civile dell’associazione tra i popoli, e l’associazione tra i popoli, non la dominazione, è stato il senso storico del nostro epos africano, perché non andava in Africa un’Italia imperialista. In Africa gli Italiani non hanno sfruttato, non hanno depredato, ma hanno offerto lavoro, sudore, vite umane. Gli Italiani volevano innalzare gli Africani al livello degli Europei: migliorare le loro condizioni di vita, remunerare in modo adeguato il loro lavoro, difendere la loro salute, rispettare le tradizioni, le consuetudini, le religioni; le strutture tribali e sociali.
L’Italia voleva operare a fianco dell’Africa, per sviluppare un’economia euro-africana e indirizzare correnti demografiche dall’Italia verso l’Africa, per stabilire in Africa produzioni industriali, sviluppare in Africa attrezzature produttive, in Africa migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Dagli Italiani la Somalia è stata esplorata, studiata, bonificata; ma non sfruttata. I Somali sono stati educati nelle
scuole, curati negli ospedali, avviati alle professioni. In Somalia c’erano solo piste e carovaniere. Per collegare i centri della costa con le località dell’interno gli Italiani hanno costruito più di 15.000 chilometri di strade asfaltate, quindi percorribili anche durante la stagione delle piogge; hanno avviato la realizzazione di una ferrovia da Mogadiscio in direzione dell’Etiopia; hanno reso
Mogadiscio una città italiana: con architetture italiane; scuole, ospedali, tribunali, piccole case, grandi palazzi. Gli Italiani hanno costruito porti importanti su una costa priva di approdi naturali: il porto di Mogadiscio, di Merca, gli approdi di Brava e Bender; poi grandi opere idriche: la diga sull’Uebi Scebeli; bacini idrici, acquedotti, pozzi, impianti potabilizzatori; di distillazione dell’acqua. Hanno promosso piccole aziende manifatturiere, centri per l’artigianato locale; canali di irrigazione;
piantagioni, allevamenti. Negli anni del Fascismo sono sbarcati poi in Somalia tanti coloni italiani, soprattutto veneti e lombardi, pronti a trasformare povertà e schiavitù in progresso economico e sociale. Nel 1938 c’erano 22.000 italiani in Somalia. I rapporti tra Italiani e Somali sono sempre stati ottimi: rapporti di civiltà e di rispetto. Molti reparti di Ascari somali hanno combattuto fedelmente a fianco dell’Italia nel Secondo Conflitto Mondiale. Dopo l’occupazione inglese del 1941, fino a tutto il 1943, hanno poi partecipato alla guerriglia italiana contro gli Inglesi. Quando, nel 1949 gli Inglesi si sono ritirati, le Nazioni Unite hanno affidato all’Italia l’Amministrazione Fiduciaria della Somalia, un periodo di dieci anni, dal 1950 al 1960, per preparare la Somalia all’indipendenza. L’Italia non si è certo risparmiata in  quel decennio. È qui presente la Marchesa Maria Gabriella Ripa di Meana, figlia del Generale Umberto Ripa di Meana, già comandante dei Carabinieri in Somalia durante
il nostro mandato. Ma la formula adottata dall’ONU si è rivelata un po’ ottimista, perché evidentemente ci voleva più tempo per consolidare le istituzioni, per rendere la Somalia veramente unita, economicamente autonoma, per dare ai Somali uno Stato forte, libero e onesto. Nel 1975 il dittatore Siad Barre ha confiscato le aziende italiane, danneggiando gravemente non soltanto i proprietari e i concessionari, ma soprattutto l’economia somala. Gran parte dell’Africa oggi è un poligono di guerra. L’occupazione territoriale e lo sfruttamento colonialista si sono trasformati in uno sfruttamento economico, quello, non meno crudele, delle grandi multinazionali. Cosa è rimasto allora di tutto il lavoro italiano in Africa? Cosa è rimasto, oltre le colonie perdute, oltre le città distrutte, oltre il sangue sparso? La Libia, l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia, sono intrise di sangue italiano, di sudore italiano; cosparse di campi di battaglia. Sono rimaste le ossa dei morti, ed è rimasto quello che è rimasto delle strade, delle città. Ma è rimasto soprattutto quello che il nipote del Duca degli Abruzzi, Amedeo di Savoia, il Duca d’Aosta, ha chiamato “il retaggio”, il retaggio dell’epos africano: il rifiuto di vivere senza ideali, senza passioni, senza finalità collettive; la testimonianza di chi è andato oltre se stesso, di chi ha saputo trascendersi, andare oltre l’umano. Questo bronzo di Corrado Rufini rappresenta un
“Melic Tegnà”, un adolescente etiope portatore di messaggi. Il messaggio che oggi ci porge è un messaggio che va oltre i limiti dell’ideologia o della nostalgia, oltre l’amarezza della disfatta e del tradimento: il messaggio che è possibile una vita più intensa, dignitosa e creativa, sull’esempio delle vite e delle opere della nostra generazione africana. Di questa lontana epopea è rimasto l’incoraggiamento a cercare e a trovare il nostro Polo, a cercare e a trovare nel Bene supremo e infinito il nostro cardine, come cantava il poeta. Quando tutto intorno sembra imbrunire, in quella che sembra la grigia nebbia della sera si nasconde sempre un’aurora: Va, principe giovane e giovane Italia! Nel pelago eterno, va, cerca il tuo Polo; va, trova nel mondo infinito il tuo perno!
Va, in mezzo alla grigia bufera, va, dove s’incontra e s’indora con questa che sembra una sera la subita aurora!

© Alessandro Scafi

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