Verso il Giorno del Ricordo

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QUELLO CHE DOBBIAMO AI NOSTRI ISTRIANI”

” Il 10 febbraio ancora una volta, verrà celebrata la “Giornata del Ricordo“. Istria “perduta”.
La legge prevede che il 10 febbraio venga dichiarato, appunto, “Giornata del Ricordo”. esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. iniziativa è stata intesa come risarcimento morale per gli esuli, che dopo il trattato di Osimo (anno 1975) si sono orientati elettoralmente verso le forze di destra e centrodestra, come la Lista per Trieste. La giornata del Ricordo è stata celebrata per la prima volta nel 2005. Ricordo che a Spalato e a Zara le autorità consolari italiane deposero corone al cimitero in ricordo delle vittime. Cerimonie simili, invece, non furono autorizzate né in Istria, né in Slovenia. opinione pubblica italiana sul crudele destino dei profughi della diaspora istriana.

Le foibe, cavità carsiche diffuse nella Provincia di Trieste, vennero utilizzate dalle truppe di Tito per occultare i cadaveri delle vittime italiane, durante e alla fine della seconda guerra mondiale.
8 settembre 1943, avvenne in Istria e Dalmazia e vide centinaia di infoibati italiani. Colpevoli di esserlo. furono teatro di eccidi etnici a Trieste e a Gorizia. 45, il IX Corpus di Tito occupò per 40 giorni Trieste, infoibando senza alcuna pietà migliaia di italiani e tedeschi. anima della vittima di chiedere vendetta. … Difficile fare i conti, anche oggi. Stime credibili parlano di 5 mila infoibati. E altri 5 mila morti nei campi di concentramento. Ma altre fonti parlano di 30 mila. dire foiba significa evocare una tragedia storica di grandi dimensioni. Armistizio e il 25 aprile 1945, data della liberazione. Istria e Dalmazia furono confiscate le case: per gli jugoslavi erano “italiani” e dovevano essere cacciati; per gli altri italiani erano fascisti, indesiderati. In Patria, furono accolti con diffidenza e ostilità. Molti emigrarono in Australia e Canada. Da anni, ahimé troppi anni, in trasmissioni che ho curato e condotto su tv private isontine e del Nordest, mi sono chiesto cosa ha da dire oggi questa Storia alle generazioni che “non l’hanno vissuta“. identità tra vicini di casa, in una terra “di confine”, dove si incrociano le diversità. Che mi pare essere, al presente, la nostra condizione “normale”. Ancora una volta, bisogna ricordare gli orrori della Storia, perché potrebbero ripetersi. Non per coltivare desideri di vendetta. Ma per evitare il male che verrà. Tolstoj dice che la Storia la scrivono sempre i vincitori. Ha ragione. Ma Nicolò Tommaseo aggiunge: “un popolo non è che memoria”. Tutta, non solo quella “autorizzata”.

Così, parafrasando il titolo dello sceneggiato sulle foibe trasmesso anni fa dal servizio pubblico, ho capito che “il cuore nel pozzo”, finalmente, è riemerso alla luce. Forse perché i battiti del cuore della memoria si sentono meglio nel silenzio. Il silenzio vale a volte più di mille parole. Sapete. Un amico e grande collega, Paolo Scandaletti una vicenda che secondo me è proprio come un romanzo thriller. Lui era un ufficiale di stanza a Merano in Alto Adige. Il generale l’aveva prescelto per una missione tanto delicata quanto destinata a rimanere tassativamente segreta. Il nostro soldato doveva documentare quello che aveva lasciato la spietata violenza dei partigiani di Tito sul fondo delle foibe. Ne erano state scelte due sopra Trieste e quattro in territorio jugoslavo. Il giovane militare aveva vent’anni, in quel lontano 1957. Svelo la sua identità, così come me l’ha suggerita l’amico e grande giornalista Paolo Scandaletti nella rubrica “Dietro l’Angolo” che tiene nella mia trasmissione mattutina. Lui era il sottotenente degli Alpini Mario Maffi. Camuffato nei panni di un turista, con l’aiuto dei carabinieri e di due speleologi locali, Maffi si calò nelle viscere della terra in quel di Monrupino e Basovizza, sul Carso giuliano. Nella terra di confine. Il tremendo confine orientale. Superando l’orrore, il militare riuscì a scattare foto, fare rilievi e raccogliere materiali per stendere quel rapporto che sarebbe rimasto nell’oscurità per mezzo secolo. Caduto il segreto militare, quell’ufficiale ne ha fatto un libro prezioso come la ginestra di Leopardi, un fiore che vive nel deserto riarso della verità, e che è pubblicato dall’editore Gaspari di Udine. Vi cito il titolo: “1957. Un alpino alla scoperta delle foibe“. Leggo nel testo, che è scorrevole e mozzafiato come un emozionante giallo storico:
“Tra il pietrisco su cui camminavo spuntavano ossa umane, vertebre, un braccio così corto da fare pensare ad un bambino. Spostando le pietre, ….ancora ossa e materiali marcescenti….Un bottone di divisa tedesca“.

Le informazioni locali dicevano che i partizansky Titini nel ’45 avevano catturato tutti i tedeschi degenti all’ospedale di Trieste, militari e civili. Li avevano caricati a forza sui camion. E infine li avevano ribaltati direttamente nella fossa, con la violenza, chiudendone infine l’imboccatura con una mina. Erano state stimate poco meno di cinquecento persone. Nella seconda foiba i comunisti titini ne hanno gettati il doppio, tutti italiani. Riprendo la lettura del libro di Maffi, con un senso di sgomento e di indignazione crescenti come una torta che lievita nel forno: “L’aria era irrespirabile, un odore acre attanagliava alla gola. Il fondo era formato da una melma nerastra dalla quale spuntavano rifiuti di ogni genere….ma non vidi resti umani. La massa saponosa al fondo, e sulle pareti alta 15 metri, era la decomposizione dei cadaveri. Almeno di mille persone“. Maffi stesso propose di chiudere quelle fosse, facendone delle tombe. Il giorno dei morti del ’59 il famoso vescovo di Trieste mons. Antonio Santin celebrò la messa di suffragio per quei defunti. Vedete, l’Istria e la Dalmazia sono terre antichissime. Terre che conservano l’impronta indelebile e la memoria incancellabile di Roma e di Venezia. Impronta e memoria e radici che, se ci andate, potrete respirare e toccare con mano ovunque in Istria.

La violenza nazifascista e quella slava vi si sono abbattute come un maglio, in un singolare ma non inverosimile e divaricato combinato disposto, sugli sventurati concittadini istriani di famiglia e cultura italiana. Che sono stati brutalmente perseguitati e deportati. Una vera pulizia etnica: in almeno 25 mila sono stati ristretti nei campi di concentramento. Precipitandone altre migliaia nelle foibe dell’altopiano carsico di frontiera. Quanti? L’orribile contabilità non è mai stata definita completamente. Sono più di vent’anni che conduco trasmissioni di approfondimento su questa lacuna imperdonabile, su questa disattenzione cialtronesca, sulla rimozione e sulla mistificazione meschine.
Ricordo che ne parlavo sempre con lo storico pordenonese Marco Pirina e con il grande scrittore friulano Carlo Sgorlon, che andavo a trovare nella sua casa di Via Micesio a Udine. E ne ho riparlato di recente ritrovando dopo oltre trent’anni un amico come Rodolfo Ziberna, dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.

Quelle intimidazioni, minacce, soprusi, violenze, ricatti provocarono l’esodo biblico di 350 mila istriani che erano profondamente legati alle loro case e totalmente, visceralmente innamorati della loro terra natìa. Ma che erano stati costretti ad abbandonare tutto agli invasori, per avere salva la vita. Propria e dei propri figli. gli istriani nella loro diaspora drammatica furono accolti con malagrazia e antipatia, giunti sul suolo italiano.

La Madre Patria, alla stazione di Bologna “la rossa” si rivelava per quello che era: una scostumata, prevenuta, rancorosa e sguaiata matrigna vendicativa. Capace di calarsi nell’abisso dell’abbrutimento e dell’inumanità nel negare perfino il latte ai bambini degli esuli in fuga. Gli esuli istriani, insomma, hanno pagato sulla loro pelle caro ed amaro sia il conto della Guerra Fredda che quello delle lotte politiche intestine a Roma. E sapete il paradosso? Questo qui: chi di loro è ancora in vita, come la carissima e combattiva Anna Fagarazzi, è costretto ad assistere al nuovo straziante vilipendio della memoria. E a continuare a pagare quell’atroce conto sempre aperto. Per l’oblio in cui è stata confinata la tragedia adriatica dalla nostra memoria e dai libri di storia. Mi ha chiamato in diretta anche oggi, poco prima che rivedessi questo articolo: “Sai Gianluca, qualcuno dei telespettatori si lamenta perché parlo da te e ricordo la nostra tragedia. Bene, si rassegnino: finché avrò voce io parlerò e ricorderò”. Cara Anna, sappi che l’ambiguità mette radici quando un pensiero vuole morire. Anna ha affrontato e combatte ogni giorno contro un nemico ancor più subdolo dei prevenuti e antipatizzanti di mestiere, un ospite ingrato e bastardo annidato nel suo corpo quando il corpo ha solo il cielo scuro per vestito come avere appiccicato in testa il vuoto di un presente eterno: ciononostante, nell’ultimo anno è andata a parlare ai ragazzi di 56 scuole.
Non può riposare, non se lo può permettere, segue strade senza inizio e senza fine, è tenuta in piedi dal dolore e dall’amore e il suo futuro di ieri passa sotto le gambe come un furetto dispettoso e insolente. Il dolore del ricordo di quel che ha subito e di cui porta i segni nel libro delle vita. Il dolore respira con lei, vaga lungo incerte terre di confine, ne segue il ritmo del suo cuore a sobbalzi. Non lo può abbandonare. Perché il dolore sale e scende dalla ruota del suo destino, suo e della sua famiglia e della sua gente. Però Anna vive e ricorda anche grazie all’amore: perché noi siamo quello che amiamo. Anna fa bene. Continui ad alimentare il “rumore della memoria”. Perché questi giovani devono sapere quel che ai loro padri è stato nascosto in un incantesimo ignobile. Glielo dobbiamo. Ce lo dobbiamo. Anna si indigna ancora: stavolta ricorda che il presidente Saragat decorò nel 1969 l’infoibatore Josep Broz Tito e ad una trentina di altri macellai slavi (alcuni ancora vivi) come “Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica italiana”. Con l’aggiunta, già che c’era, del “Gran Cordone”, il più alto riconoscimento previsto. Dico io: possibile che nessuno abbia pensato di levargli questa onorificenza per indegnità, come è previsto dalla legge?
Solo a Tanzi togliamo il cavalierato in venti giorni? Era peggio di Tito?

Per tacere di Franjo Rustja. Che nei 40 giorni di occupazione titina di Trieste, era il primo assistente al comando del IX Corpus. La famigerata, sanguinaria, feroce unità di Tito che catturò, massacrò, torturò e gettò nelle foibe migliaia di italiani. Colpevoli di esserlo. Ma niente da fare: la burocrazia ha frapposto il solito, scivoloso muro di gomma alla richiesta di revoca e cancellazione. Anna Fagarazzi ha ragione. Ma ricordi sempre che un uomo che ne uccide un altro è un assassino, mentre un uomo che ordina di ammazzarne un milione è uno statista. La storia dell’umanità certifica questo principio. Oggettivamente, l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, e quello della Serbia, ripropongono all’opinione pubblica italiana la memoria della tragedia adriatica: chi risarcirà mai i 350 mila italiani che furono costretti ad abbandonare l’Istria e la Dalmazia (ammesso e non concesso che un risarcimentro sia possibile)? Costretti a lasciare lì tutto di sé, il loro vissuto, i propri averi, le attività, sotto l’incalzare prima minaccioso e poi terroristico e genocidario dei partigiani di Tito? Nessuno, purtroppo: è una facile previsione. Anzi una certezza. Sebenico e Ragusa. Otto secoli, e arriverà Bisanzio, e poi ancora i Franchi col loro sistema feudale. Ma dal Mille, e per altri ottocento anni, la storia di queste terre benedette da una natura invidiabile, vigorosa e generosa sarà strettamente legata a quella della Serenissima Repubblica di san Marco. Venezia non è interessata alla conquista dei territori quanto alla sicurezza dei traffici, alla presenza di porti sicuri per le sue navi in rotta verso i ricchi mercati dell’Egeo e del Mediterraneo orientale. In cambio, la Serenissima repubblica è in grado di offrire protezione dai pirati e occasioni di sviluppo economico e culturale. Molto accortamente rimette in funzione le autonomie comunali, pur con la supervisione di alcuni suoi nobiluomini e il contrassegno del Leone alato alle porte delle città e sul palazzo della Loggia.

Dopo il crollo della Repubblica marinara del 1797 e il rapido intermezzo di Napoleone sono diventati ormai maggioranza. E perfino là dove molte comunità di diversa etnia convivono pacificamente alla pari, senza alcuna prepotenza. Per non dire del passaggio rovinoso dei nazisti, nella ritirata rabbiosa visto che la guerra era ormai perduta; alla cui violenza subentra quella ancora più feroce, impietosa e “scientifica” delle armate del maresciallo Tito. Deportazioni, annegamenti e foibe costringono quei cittadini, solo perché la loro lingua, la loro cultura e identità sono italiane, ad abbandonare precipitosamente tutto.La tragedia accade fra il ’43 e il ’54. Costretti a lasciare la terra su cui erano nati e in cui quasi tutti avevano bene operato, abbandonandola nelle mani di sloveni e croati. Con i beni e le proprietà, le realizzazioni e i ricordi spesso felici. Il tutto tra le lacrime inconsolabili e il dolore insopportabile e le lacerazioni e le troppe ferite mai più rimarginate, per un’ amputazione così drastica, per uno stupro fisico e morale così indecente. Un popolo esodato che, con mezzi di fortuna e mille peripezie e disagi inenarrabili, approda a Trieste, Udine, Venezia, Padova, Bologna, e in Sardegna, nei campi di raccolta inospitali. E a loro i “locali” guardano con insofferenza se non proprio aperta ostilità. Proprio sulle loro teste si giocava infatti l’immane partita governata dagli untuosi corifei della real politik della spartizione, fra i vincitori, delle grandi aree mondiali di influenza. La Guerra fredda fra l’Occidente angloamericano e l’impero sovietico, nel quale oltretutto Tito prendeva le distanze da Mosca e dai suoi satelliti, spalleggiato da Londra e New York. Per tacere della “consueta” lotta politica intestina (e infatti ci è lassativa) a Roma, dove da sempre si fa finta di litigare mentre Sagunto brucia e i suoi abitanti schiattano.

I 350 mila arrivati in Italia si sono progressivamente inseriti nella vita nazionale, con iniziative di grande significato e avendone meritata notorietà. L’hanno fatto non solo privi di alcuna agevolazione o corsia privilegiata, non avendo aperto com’è noto alcun centro sociale intitolato a qualche “compagno” terrorista o a “Maria” (non nel senso della Beata Vergine, ma della patrona del beatissimo sballo… culturale). Ma l’hanno dovuto fare superando gli ostacoli, trappole e trabocchetti frapposti dagli esponenti del potere sinistrorso e consociativo, per i quali il popolo istriano era un ottimo capro espiatorio sempreverde. – Napolitano, Turk e Josipovic hanno prospettato a luglio del 2010, col grande concerto in piazza dell’Unità a Trieste. Nella comune patria europea, da oggi vi sono nuove e fondate ragioni per una migliore comprensione fra popoli confinanti. Per tramutare finalmente il confine da strumento di paura e divisione e oppressione, quindi di morte, in occasione di rilancio e cooperazione, quindi di vita. che nei decenni ha dimostrato “realmente” tutta la sua disumanità. “La profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli è vivere con una memoria che non serve a nulla“, scriveva Camus ne La peste.

Nel mio prossimo romanzo, in gestazione, racconterò di una immane strage dimenticata, accaduta proprio in Istria. Credo, nelle mie intenzioni, possa essere un piccolo, microscopico e modesto risarcimento morale. Con le mie scuse, per non essere riuscito a fare di più, in questi anni. Una carezza, per tutte quelle carezze che non abbiamo saputo dargli. Per lenire un poco tutto il loro immenso dolore che ci ha lasciati indifferenti e apatici. Per tutta l’ingiustizia su cui ci siamo lavati le mani, diventandone complici. No, scusate, secondo me non basta, non può bastare indire un “Giorno del Ricordo” per fingere di ricordare. Per risvegliare, annusando i sali della festa, la nostra memoria atrofizzata. Per farci imparare di nuovo a ricordare, cioè a essere davvero un popolo che vive in una Patria. No, non è mai sufficiente la protesi del calendario, anche se in pompa magna e coi bei discorsi inutili, per scaricarci dal rimorso, per tranquillizzarci la coscienza, per assolverci da tutte le omissioni per viltà, opportunismo, menefreghismo o paura. Ecco ciò che secondo me dobbiamo ai nostri – nostri – istriani: ammettere che la loro storia è la nostra storia, tutta intera, e che noi l’abbiamo tradita. Tradendo noi stessi. Dopotutto, l’Istria e gli istriani sono lo specchio di una nazione e di un popolo che ha smesso di amarsi e di rispettarsi. A partire da questa sgraziata e disgraziata emiplegia della memoria che genera l’anoressia del futuro. Il nostro futuro. Perché quel popolo senza sogni che non siano colpe siamo noi.”
Gianluca Versace

(tratto da il Moralista.it)

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