Yves de Gaulle nella città della “Bollente”. Il filo della storia.

DI ALDO A. MOLA

Un giorno Charles De Gaulle (1890-1970) domandò al nipote prediletto, Yves, se fosse saggio scrivere le proprie “Memorie”. V’erano quelle “d’Oltretomba”, scritto in stile inimitabile da François-René de Chateaubriand. Il ragazzo gli rispose che l’autore del Genio del Cristianesimo aveva parlato della storia di cui era stato spettatore, mentre lui, il Fondatore della Quinta Repubblica francese tra il 1958 e il 1962, destinato al Panthéon, l’aveva fatta. Sabato 15 Yves De Gaulle sarà ospite d’onore al Premio Acqui Storia 2016. E’ comparso da poco il suo ghiotto “Un autre regard sur mon grand-père Charles De Gaulle” (ed. Plon), affresco suggestivo del mondo filosofico ed etico di un protagonista della storia del Novecento, amatissimo quanto odiato, e non solo nel suo Paese. Il Generale prediligeva la solitudine nella Boisserie di Colombey-les-Deux.Eglises, propizia alla meditazione, a “sognare” persino, tra libri di storia e romanzi. Tra i suoi preferiti, Yves ricorda quelli di Thomas Mann, Joseph Roth e di Dino Buzzati, nei quali il confine tra invenzione poetica e filosofia della storia è davvero esile.

E’ emblematica la presenza di Yves De Gaulle a un’edizione dell’Acqui che premia Pierluigi Battista (Mio padre era fascista), Stelio Solinas (Il corsaro nero), Luigi De Pascalis (Notturno bizantino) e I nemici della Repubblica di Vladimiro Satta per la sezione scientifica.ro n

Ancora una volta il Premio storiografico più prestigioso d’Italia, coordinato da Carlo Sburlati, invita a fare i conti con il passato senza giochi a rimpiattino. La storia è disciplina severa. Scomoda. Lo è sempre stata. Perciò tanti storici di prima grandezza vissero o finirono esuli in patria. Bastino, per la prima metà del Novecento, Benedetto Croce, inviso a Togliatti come lo era stato a Mussolini e, s’intende, ai clericali, solitamente più bigotti dei preti; e Gioacchino Volpe, autore dell’Italia in cammino: opera di speranza (proprio come le “Memorie” di De Gaulle) per l’“itala gente da le molte vite”, oggi troppo smemorata e quindi sradicata. Tra i sommi della seconda metà del secolo scorso giace quasi dimenticato Rosario Romeo, biografo insuperato di Camillo Cavour; mentre solo l’estate scorsa “Il Giornale” ha riproposto la biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice (con prefazioni di Francesco Perfetti): un’opera che avrebbe dovuto segnare una svolta negli studi e nella vita civile ma che tante amarezze riservò al suo autore. Rimane infine pressoché obliato Ruggiero Romano, eluso in Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano (ed. Olschki) benché sia stato, fra altro, ideatore e curatore con Corrado Vivanti della Storia d’Italia e della coraggiosa Enciclopedia,un’impresa che ruppe gli schemi tradizionali e rimase incompresa.

I “Testimoni del Tempo” 2016 (Manuela Arcuri, Maurizio Belpietro, Maurizio Molinari e Vittorio Sgarbii)  e  gli autori di “La Storia in Rete” (Alessandra Gigante e Fabio Andriola) si confronteranno con i conduttori della premiazione, Mauro Mazza, saggista prestigioso e già direttore di Rai 1, e Antonia Varini (Uno Mattina); a Pia de’ Tolomei verrà invece consegnato l’ambìto riconoscimento attribuito l’anno scorso a Giorgio Albertazzi. Sarà l’occasione per domandarsi perché la sezione locale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ancora si opponga al conferimento della cittadinanza onoraria di Volterra a un Maestro di fama universale che nel 1995 vi fondò il famoso laboratorio nel Teatro Romano.

La storia  in Italia “non passa”, non perché non sia storia ma perché il Paese ne ha perso il gusto, non ne ha coscienza. Lo mostrano le forsennate polemiche che ancora divampano su nomi emblematici. Alcuni vorrebbero cancellare Badoglio dal nome del comune di Grazzano, nell’Astigiano, che dal 1939 si volle identificare con il Maresciallo e Duca di Addis Abeba. Ancora non sapeva che sarebbe stato il capo di governo destinato a traghettare l’Italia dal regime mussoliniano e dall’alleanza con la Germania di Hitler alla cobelligeranza a fianco delle Nazioni Unite: piaccia o meno, una figura centrale per la storia d’Italia, come ne scrisse Adolfo Prosio nel succoso profilo biografico (ed. Bastogi). Perdurano poi le polemiche contro Luigi Cadorna, che resse il Comando Supremo dal maggio 1915 al novembre 1917 e rappresentò egregiamente l’Italia al comitato interalleato di Versailles sino a quando fu bruscamente richiamato “a disposizione” della Commissione d’inchiesta su Caporetto. Se ne parlerà, e molto, nel Convegno “La guerra di Cadorna”, organizzato dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e dall’Università di Trieste (Trieste-Gorizia, 2-4 novembre). La terza prova della labilità della coscienza storica è data dal successo (ma sarà davvero tale?) di Carnefici di Pino Aprile, sulla scia di Terroni e di altrettali libelli, nei quali il cammino storico è ridotto a groviglio di complotti, imbrogli, ruberie, avvelenamenti (è il caso di Cavour, secondo Giovanni Fasanella e Antonella Grippo in Italia oscura, ed. Piemme)… La storia d’Italia, però, non è affatto una “pattumiera”. E’ la costruzione e la difesa di uno Stato, malgrado traversie d’ogni genere. Lo spiega  con sobrietà e chiarezza Vladimiro Satta nel suo esemplare I nemici della Repubblica (Rizzoli), fondato su ricerche d’archivio anziché su chiacchiere, su documenti invece che su pseudo-rivelazioni rimbalzanti da un “media” all’altro, senza controllo di merito, sulla meditazione anziché sulla ricerca di “un colpevole” da esibire per qualche mese o qualche anno alla pubblica gogna.

Piegare la storia a mera narrazione e umiliare la verità dei fatti a polemica di comodo ha condotto alla condizione presente, segnata dallo scandalismo perpetuo e, per suo effetto, dal crescente fastidio dei cittadini nei confronti non solo della “casta”, dei “politici” ma ormai anche dell’“informazione”, destinata  a fare i conti, prima o poi con sentenze di tribunali,  che giungono a ristabilire la verità dei fatti. Va però constatato che talora queste giungono tardi, quando le conseguenze politiche e persino istituzionali  delle imputazioni  e delle indagini preliminari sono ormai consumate, con esiti spesso catastrofici, come insegnano le recentissime assoluzioni di Ignazio Marino, di Roberto Cota e di altri molti da accuse infamanti assurte a luoghi comuni e destinate a durare, anche se false.

Parecchie persone che scelsero di dedicarsi alla cosa pubblica e dovettero bere l’amaro calice dell’ingratitudine e della damnatio memoriae si saranno interrogate appunto sul destino paradigmatico di Charles De Gaulle. Tornato al potere dopo anni di esilio in patria, il Generale risolse con coraggio la questione algerina: osò sfidare i militari che nel suo stesso Paese erano considerati eroi intoccabili, campioni del patriottismo. Guardò più lontano e prevalse. Rivendicò la centralità dell’Europa contro l’arroganza spesso inconcludente degli Stati Uniti d’America e volle la “force de frappe” (ovvero la bomba atomica francese), mettendo in crisi la NATO. Lo Statista  che aveva cambiato la Francia  reagì all’offensiva del Sessantottismo ma nel 1969 fu sconfitto nel referendum che mirava alla riforma del Senato in assemblea paracorporativa e, come aveva avvertito, si dimise. Morì lasciando incompiute sia il disegno politico sia le Memorie. Grazie a lui, tuttavia, la Francia divenne Repubblica presidenziale: un Paese che pesa, nel bene e negli errori. La sua fu vera e grande riforma, non il pasticcio Renzi-Boschi, che davvero non meritava annididiscussione in Parlamento né vale altrimesididisputeestenuanti sino al voto del 4 dicembre, a tutto danno di Esteri, Difesa, Istruzione, Ricerca ed economia: un immenso perditempo e un’immane sciagura, da chiudere finalmente il 4 dicembre con un secco “No”.

Faremmo torto alla memoria se tacessimo che nell’Italia Nordoccidentale e specialmente nell’area liguro-piemontese Charles De Gaulle è ricordato anche per le punitive rettifiche di frontiera pretese, imposte, ottenute dalla Francia ai danni dell’Italia con il trattato di pace del 1947. Ma anche per questo la presenza di suo nipote Yves nella città della “Bollente” è una lezione di storia, un invito a “un autre regard” sul passato e sull’Europa “dei popoli”, “dall’Atlantico agli Urali” (o, se si preferisce  ed è meglio, a Vladivostok), come appunto insegnò il Generale.

 

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