La Croce del Perdono 2020.

Già volato un mese da quel meraviglioso momento, nella Basilica di Collemaggio, in cui abbiamo presentato ufficialmente la Croce del Perdono 2020!

Era la sera del 27, in tutta L’Aquila si preparavano gli animi per la festa del 28 e 29 agosto di quest’anno (come di sempre!). Si attendeva con gioia la Perdonanza Celestiniana, il ricordo del primo giubileo de facto della storia, istituito da Papa Celestino V nel 1294 e continuato o, meglio, custodito tenacemente dagli aquilani, nell’arco di 725 anni.

Quest’anno, i 725 anni sono diventati 726 e l’evento, di proprietà sempre degli aquilani, è diventato anche un bene di tutti, trovandosi da dicembre 2019 tutelato come patrimonio immateriale dell’umanità sotto le insegne dell’Unesco.

Nell’anno della pandemia, di una nuova crisi, del punto di rottura con i vecchi schemi – che ora infatti devono essere rivisti e ridisegnati – Laura Caliendo e Gabriele di Mizio, maestri orafi aquilani, hanno donato allo sguardo del mondo un gioiello, la cui iconografia è stata ideata con la collaborazione di chi scrive, carico di significato e desideroso di comunicare in modo forte un messaggio di speranza.

Nell’ispirazione che ci ha guidati, in un percorso lungo, dinamico e ricco di emozioni, le idee si sono fatte simbolo, i simboli si sono concretizzati e la croce è venuta alla luce come opera d’arte desiderosa di parlare ad una collettività quanto più ampia possibile.

Si presenta ad un primo sguardo molto essenziale, con ampie zone vuote. Essa infatti rappresenta, idealmente, un crocevia di strade, al centro delle quali si trova Cristo, verso la quale tendono tutte le mani raffigurate sui capicroce.

Le linee fortemente squadrate e il taglio netto debbono il loro carattere alle croci auree dell’epoca longobarda, opere dei secoli immediatamente successivi alla caduta dell’impero romano d’Occidente, figlie di un’epoca di radicale trasformazione nella storia del nostro continente (così come la nostra, probabilmente, o, almeno, questo è un parallelismo che abbiamo voluto creare) e che possiedono radici profonde nell’arte bizantina e paleocristiana. L’arte “pulita” delle origini.

Al centro della croce/crocevia si trova un topos antico: l’immagine del Cristo Pantocrator, il dominatore di tutte le cose, un’iconografia riconosciuta universalmente, profondamente radicata nella tradizione e costantemente richiamata come riferimento nella cultura figurativa. In questa croce, Cristo viene raffigurato in piedi, ma con attributi iconografici tradizionali: la mano destra benedicente, il Vangelo nella mano sinistra, il nimbo con la croce inscritta.

Nel gesto della mano destra, benedicente, indice e medio sono vicini ad indicare la doppia natura di Cristo, umana e divina, mentre le altre tre dita, più vicine tra loro, simboleggiano la Trinità.

Il Vangelo può presentarsi chiuso, a simboleggiare una Verità rivelata e completa, cui non dev’essere aggiunto nulla, oppure aperto, con la citazione di un brano specifico. Frequentemente vi si leggono, ad esempio, (Gv 8,12) “Io sono la Luce del Mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” oppure (Ap 1, 8) “Io sono l’alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”.

Qui, invece, non c’è una scritta precisa e, questo, per ricordarci che il Vangelo aperto parla ogni giorno, per invitarci a cogliere proprio ogni giorno, legandola alla nostra storia, una parola di Verità, che ispiri le nostre opere.

Il Cristo benedicente, come fosse un’icona, si fa dunque centro compositivo dell’opera. Verso di Lui, in particolare verso il Suo volto, segno tangibile della Sua persona converge tutto il resto del contenuto.

Trattandosi della prima Croce Unesco, si è voluto dare forma anche al concetto di universalità, con l’idea di rappresentare il mondo intero: dapprima fisicamente e poi metaforicamente…

Come simbolo di esperienze di carattere universale, sono state scelte ancora le mani, per la loro capacità comunicativa, per il loro potere di FARE.

Ed ecco che le mani, in numero simbolico di tre per gruppo, si tendono verso il Cristo, sono mani di uomini, di donne, di bambini, di tutti i popoli della terra, protese in un messaggio universale di accoglienza e fratellanza.

A dirci che queste mani sono le mani di tutti i popoli della terra, sono dei cabochons di pietre naturali incastonate alle estremità dei bracci. I colori scelti corrispondono ai colori simbolici stabiliti dal rosario missionario per ciascuno dei continenti.

In alto, sull’asse longitudinale in posizione centrale, è collocata un’agata bianca, come bianco è il colore associato all’Europa e al colore della veste del Sommo Pontefice;

a destra in alto il giallo, un topazio citrino, che rappresenta l’Asia;

a destra in basso il turchese, dedicato all’Oceania;

a sinistra in basso il verde, uno smeraldo, per l’Africa;

a sinistra in alto il rosso, corallo, dedicato al continente americano.

L’ultimo elemento della composizione è così ampio da avvolgere tutta l’opera ma così “immateriale” da non poter essere spiegato alla stessa maniera degli altri singoli particolari.

Il color oro. Teologicamente definito come il colore della Luce, il colore ultraterreno per eccellenza, il colore dello spazio sacro; in quest’opera esso si riversa su tutto e fa sì che la dimensione del sacro rivesta tutto: dai tradizionali colori della veste del Cristo Pantocrator nelle varie raffigurazioni, siano esse dipinti, affreschi o mosaici in un catino absidale; riveste di luce il colore della pelle delle mani, riveste le strade del mondo…

La Luce avvolge e afferma così, in modo totalizzante, la sua presenza, grazie alla quale si può non perdere di vista la speranza. Ecco perché, anche l’allenamento a guardare la bellezza merita un impegno concreto e attivo.

Serenella Zen

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