Peripezie di un grande Re: Vittorio Emanuele III

veiiiVITTORIO EMANUELE III, LA CITTADINANZA, LA NAZIONE

di Aldo A. Mola

Presidente della Consulta dei Senatori del Regno d’Italia

Il 10 aprile 1901 Vittorio Emanuele III (1869-1947, re dal 1900 al 1946) conferì il Collare della Santissima Annunziata al presidente della Repubblica francese, Emile Loubet, notoriamente anticlericale. Non lo ricorda Frédéric Le Moal nella più importante biografia del re d’Italia pubblicata in Francia, “Victor-Emmanuel III” (Parigi, Perrin). Eppure fu quello il suo primo passo di sovrano lungimirante. All’inizio del Novecento, il trentunenne Vittorio Emanuele, principe di Napoli e sposo felice di Elena di Montenegro dal 1896, non aveva alcuna fretta di ascendere al trono. Ma il 29 luglio 1900 suo padre, Umberto I, venne assassinato a Monza mentre egli era in navigazione nell’Egeo con la consorte. Assunse la Corona perché “un Savoia non è mai vile”. All’epoca l’uccisione di capi di Stato e di governo era come gli attentati odierni: frutto di estremismo ideologico e di mentalità criminale anziché e molto più che del disagio sociale ed economico nel quale versassero i loro applauditi autori. Già all’epoca non ammettevano giustificazioni, a meno di scadere nel “darwinismo sociale” condannato nel 1910 da Giacomo Novicow, che lo liquidò come “dottrina che considera l’omicidio collettivo come una spinta al progresso del genere umano”, argomento puerile eppure più volte evocato da quanti ripetono che le invenzioni abbiano bisogno di guerre quale acceleratore.

Dalla Restaurazione del 1814-1815, invero, lo stillicidio di attentati aveva percorso ogni Paese al di qua e al di là dell’Atlantico, dagli USA di Abramo Lincoln alla Russia di Alessandro II. Il regicidio di Monza fece capire ai cattolici italiani che un monarca agnostico (non “ateo” come invece insinua Le Moal) era meglio della bigotta Maria Sofia di Borbone, spodestata regina delle Due Sicilie, sospettata da Giovanni Giolitti di oscure trame con gli anarchici proprio per assassinare Umberto I.

La “bussola” del re: Roma…

Appena assunta la Corona, Vittorio Emanuele tessé una fitta rete di contatti personali con i sovrani di tutta Europa, con i quali, del resto, la sua Casa era legata da secolari intrecci parentali, da alleanze e contro-alleanze. In pochi anni effettuò un turbine di viaggi, visite, colloqui, scambi epistolari diretti. Il re perseguiva l’obiettivo mancato da Umberto I e da Vittorio Emanuele II: ottenere il riconoscimento esplicito della sovranità dell’Italia su Roma e privare di valore politico-istituzionale la legge delle Guarentigie che dal 1871 riconosceva l’inviolabilità dei Sacri Palazzi vaticani senza però considerarli uno “Stato”, anche se i pontefici continuavano a ritenersi sovrani temporali e tali erano trattati dalle Potenze che avevano un ambasciatore presso la Santa Sede. Va ricordato che in quella lunga e complessa battaglia il regno l’Italia ebbe un solo vero alleato: gli imperatori di Germania. La Francia, che sino al 1870 (quando fu sconfitta dai tedeschi) aveva ostacolato l’annessione di Roma, continuò a vezzeggiare il Papato. In cambio nel 1892 Leone XIII dichiarò che per la Chiesa la forma dello Stato è indifferente rispetto alla qualità della legislazione. La repubblicana Marianne per qualche anno fu gradita alla Santa Sede più di quanto le fosse stato Napoleone III, il “fosco figlio di Ortensia” che non aveva battuto ciglio quando Vittorio Emanuele II le aveva sottratto Emilia-Romagna, Marche e Umbria. Francesco Giuseppe d’Asburgo non andò mai a Roma per ricambiare le visite dei re d’Italia a Vienna. Nicola II di Russia in Italia arrivò (senza zarina) nell’ottobre 1909, con un viaggio lunghissimo, ma fu accolto non a Roma bensì nel Castello di Racconigi. Quella plaga del Vecchio Piemonte era più sicura della Capitale mentre, anarchici e internazionalisti a parte, contro la sua visita divampavano polemiche di socialisti, repubblicani e persino di massoni (con la nobile eccezione del sindaco di Roma, Ernesto Nathan, che andò a rendere omaggio allo zar). D’altronde, a differenza dei re luterani o anglicani che, visitato il re d’Italia al Quirinale, andavano a ossequiare i papi nei Sacri Palazzi pensando ai cattolici propri sudditi, lo zar non avrebbe mai messo piede in Vaticano e non avrebbe mai accolto un papa nella “Santa Russia” (ove sinora non è stato accolto alcun pontefice).

Vittorio Emanuele III esercitò con fermezza tutti i poteri statutari, a cominciare da quelli riconosciutigli all’articolo Cinque. Secondo Le Moal il re aveva per lo Statuto un rispetto più formalista che formale: “falso costituzionale” si spinge a dire. Il parlamentarismo ai suoi occhi era una debolezza per un paese forte. La guerra del 1915-1918 e la vita al fronte esasperarono la sua ripulsa verso il parlamentarismo e gettarono le basi della sua propensione per “soluzioni autoritarie”. Questa interpretazione deve molto alla identificazione, tanto franco-centrica quanto opinabile, tra repubblica e democrazia e alle antiche riserve francesi nei confronti dei re nostrani, della monarchia e, infine, della stessa Italia come Stato indipendente e unitario: agli occhi dei francesi uno strano incidente del cammino storico, perché per secoli l’aveva considerata terreno aperto a scorribande e a guerre per l’egemonia sull’Europa continentale.

Le Moal ha il merito di mettersi alle spalle la pochezza della pubblicistica e di certa saggistica sul ruolo del re e ammette che i sovrani sabaudi furono il vero pilastro portante dello Stato, protagonisti a tutti gli effetti. Ma Vittorio Emanuele III lo fu molto più di quanto egli gli riconosca. Il re, infatti, non si limitava a visitare sovrani stranieri (con o senza la consorte) e a riceverli (come bene documenta anche sulla scorta di inediti) in un vortice di contese personalistiche e diplomatiche, di ripicche, di graduazione del cerimoniale secondo l’importanza di volta in volta attribuita all’“ospite”, in funzione di schemi cangianti di politica estera.

..e l’unione di “popoli d’Italia”, dei cittadini.

In realtà Vittorio Emanuele III ebbe un obiettivo chiaro, enunciato sin dall’ascesa al trono: raccogliere attorno alla Corona i “popoli d’Italia”, tutti. Non solo i militanti dei partiti (dai socialisti riformisti ai cattolici non nostalgici del papa-re, dai radicali agli stessi mazziniani, patrioti prima che settari) ma proprio tutti gli italiani, forti di 2500 anni di storia accomunante, come si vide nel Cinquantenario del regno. Tra il 1912 e il 1921 vennero varate le due grandi e insuperate leggi sulla cittadinanza e sull’obbligo dell’istruzione (molto più importante di quella del 1877 sull’istruzione obbligatoria, senza elemosine governative ma con investimenti strutturali: riforme vere, non mortificanti spiccioli “una tantum” a “oves et boves”).

Erede di una dinastia con nove secoli di storia, il sovrano si fece largo a gomitate nell’Europa dell’epoca e orientò i ministri degli Esteri Giulio Prinetti, Tommaso Tittoni, Francesco Guicciardini. Trovò la sintesi nel siciliano-normanno Antonino di San Giuliano, in stretta intesa con il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, con il ministro della Guerra, Paolo Spingardi e il capo di stato maggiore Alberto Pollio, il “quadrilatero della Terza Italia”. Le altre potenze erano “alleate” (Germania e Austria-Ungheria), vincolate da patti di non aggressione (Francia), amiche distanti (Gran Bretagna) o molto interessate a far blocco contro gli “alleati” (la Russia). Malgrado tutto, gli Stati Uniti d’America rimanevano ancora un mondo lontano, come l’America centro-meridionale dopo la fucilazione di Massimiliano d’Asburgo a Querétaro e il tramonto del sogno di un impero latino al di là dell’Atlantico. Molto significativamente, sulla scia di quanto avevano fatto il padre e il nonno, anche Vittorio Emanuele III conferì numerosi Collari della SS. Annunziata a imperatori, re e principi di vari fedi (lo scià e il gran visir di Persia, principi giapponesi, il reggente dell’impero cinese, il re d’Egitto…), ma non ne destinò nessuno né a presidenti degli USA (inclusi Theodore Roosevelt, suo ammiratore, e Woodrow Wilson) né a capi di Stati “amici” dal Messico all’Argentina.

Il conferimento dei Collari (come quello a Loubet, poi a Fallières e quindi a Poincaré) era il suo modo di anticipare la politica estera del regno con gli strumenti statutari: ma nel “recinto” che conosceva bene. Il sovrano era consapevole che l’Italia era sola. In una dozzina d’anni cambiò dieci governi, una moltitudine di ministri e sottosegretari di Stato: una babele. Non per scelta sua o suo antiparlamentarismo, ma perché quella era la vita politico-parlamentare. Eppure stabile rispetto a fine Ottocento, quando gli elettori furono chiamati alle urne cinque volte in dieci anni e alcuni governi durarono poche settimane. Come documenta il Carteggio di Giolitti curato da Aldo G. Ricci con mille inediti rispetto alla raccolta di mezzo secolo addietro (ed. Bastogi), solo il re tenne la barra dritta nelle ore più difficili. Non perché fosse un falso sovrano costituzionale (come invece scrive Le Moal), ma per la gracilità del sistema parlamentare e per un fatto che sempre si dimentica: l’unificazione nazionale aveva appena quaranta-cinquant’anni, lo Stato era ancora da costruire (e ancora oggi arranca).

La modernizzazione dell’Italia compì un balzo proprio nel primo quindicennio del Novecento. Rimane difficile concluderne che Vittorio Emanuele III fosse “visceralmente ancorato a una società patriarcale”, “animale politico dal sangue freddo e fatalista”, convinto che il sistema monarchico era malato, condannato e immeritevole di essere difeso con l’autorità delle prerogative della Corona.

Mentre sono in corso tante riflessioni sulla partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra due considerazioni si impongono. Anzitutto il regno d’Italia fu l’unica monarchia “di peso” sopravvissuta nell’Europa continentale alla catastrofe che travolse gli imperi di Russia, Austria-Ungheria, Germania e Impero turco-ottomano. Le altre monarchie (a eccezione del Belgio, invaso non di scelta propria) erano rimaste neutrali, Spagna compresa. In secondo luogo quella enorme prova fu superata e vinta perché l’Italia “si scoprì nazione”. I “neutralisti” si batterono con dedizione e patriottismo non inferiore a quello degli interventisti. Perciò l’Italia resse anche alla catastrofe della seconda guerra mondiale. Era e rimase lo Stato costruito dalla sintesi Risorgimento-Casa Savoia (*). Gratitudine vuole che le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena vengano restituite alla Patria. Nel 1840 Luigi Filippo di Borbone Orléans traslò la salma di Napoleone I a Les Invalides: era parte della storia di Francia. Farà altrettanto la Repubblica settant’anni dopo il proprio avvento? Darebbe prova di forza in una stagione che richiede più coesione e quindi più memoria.

(*) Se ne è parlato nel Convegno di Pescara (27-28 novembre ) “Quando un popolo si scoprì nazione”, con interventi di Franco Marini, Marcello Veneziani, Giuseppe Parlato, Giordano Bruno Guerri, Dino Cofrancesco, Eugenio Di Rienzo, Hervé Cavallera e altri.

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